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mondo granata
Domenica 17 novembre 1984.
Si stanno giocando gli ultimi attimi di Juventus – Torino, il risultato è fermo sull’1-1.
Il Toro, dopo una gara gagliarda chiude all’attacco e si procura un corner, proprio sotto la Maratona.
A batterlo va Leo Junior.
La muraglia della Curva granata sullo sfondo.
Leo parte, la palla fa un metro, forse due.Ma non prosegue, rimane a mezz’aria.
L’immagine si ferma, e il mondo con essa.
Quante gente in quella muraglia granata quel giorno, in quell’attimo.
C’era Max, di fianco a me, c’era Libano, seduto sulla balconata, c’era Aldo che stringeva l’asta della bandiera, Boiapauta col solito sguardo ebete, Giansu che stringeva per scaramanzia il borsellino delle monete, come faceva sempre, Walter teso come una corda di violino, “Moango” piazzato dietro a Beppe.
E poi c’era lei, un sorriso biondo confuso tra la folla, un po’ più in là.
Ceri tu, c’ero io.
C’eravamo proprio tutti quel giorno, in quel momento, in quella Curva.
Ed è di questo che parla questa storia.
Di tutta quella gente che in quel preciso secondo stava per vivere un’emozione grandissima.
Dell’attimo che precede la felicità.
Di un sorriso biondo perso ancora prima di essere scoperto.
E di un istante che sta durando ancora adesso.
Eravamo secondi, dietro al sorprendente Verona, nel 1984-1985.
Era il Toro di Leo Junior, di Dossena, della coppia di attaccanti Schachner – Serena, di Martina.
Era il Toro del ritorno di Radice, dopo anni di esilio in altri lidi.
Eravamo forti, poche storie, quello era l’anno giusto.
Venivamo dalla rotonda vittoria casalinga contro il Milan, un 2-0 siglato dalla punizione di Leo, prima della sua corsa sotto la Maratona per regalare ai tifosi, che tanto amava, la sua maglia.
Eravamo forti sì, ma era il sorprendente Verona a condurre quel campionato. Il Verona snobbato, il Verona dei rincalzi, guidato da Osvaldo Bagnoli.
E noi eravamo lì a ridosso, a sognare sulle ali di entusiasmi ancora recenti.
Ma c’era il derby contro la squadra del temuto francese, a frapporsi tra noi e i nostri sogni.
C’erano i fantasmi delle sue punizioni a infastidirci e preoccuparci.
Dovevamo passare su di loro per sognare ed essere felici.
Ricordo una coreografia da spettacolo quel giorno in Maratona.
Fu il derby del bandierone con i due Tori granata in campo bianco, in posizione centrale.
Fu il derby degli striscioni: Minime al Nord: JUVENTUS – 4, che furono scoperti ad un quarto d’ora dall’inizio della partita, ad indicare i punti di distacco, in nostro favore, che ci separavano dai gobbi.
Noi, con lo striscione del nostro gruppo scalcagnato, eravamo fieri di fare parte di quello spettacolo, che nessuna frase, nessun resoconto è mai riuscita anche solo a fare intuire.
Eravamo ragazzini, ma per noi era un onore essere lì.
Il Toro iniziò agguerrito quella gara, nonostante che Serena fosse marcato da Sergio Brio.
Un giocatore che in molti odiavano. Si sentivano volare imprecazioni incredibili, non solo al suo indirizzo, ma anche a quello della sua stirpe, passata e ventura, e questo grazie al suo gioco talvolta platealmente rude e scorretto.
Tuttavia, nonostante il nostro tifo assordante e la nostra passione, incocciammo in un dispiacere dei soliti, proprio quello che temevamo di più.
Punizione per la gobba. Tiro secco dell’innominabile francese e gol, proprio sotto di noi.
Non si poteva perdere quel derby, non così, non come al solito.
Andammo al riposo sotto di 1-0, col morale sotto i tacchi, nei pochi millimetri liberi che la Maratona di allora ci concedeva.
Lei era là, qualche metro sulla destra.
Era dall’inizio del campionato che incontravo il suo sorriso biondo, incorniciato dalla sciarpa granata.
Una ragazza d’altri tempi, forse, con quella semplicità ed ingenuità che era così difficile da trovare.
La guardavo da mesi, accompagnata dai genitori, soltanto qualche metro più in là.
Io la guardavo e lei mi guardava sorridendo, quella domenica in modo particolare.
Non potrò mai dimenticarlo.
Le avrei mai parlato?
Quando le squadre tornarono in campo, il mondo si capovolse.
Il Toro attaccò sotto la Maratona, ed in un amen infilzò i gobbi.
Lancio di Galbiati, Schachner la rimette in mezzo di testa e Francini tocca sottomisura.
Traversa interna.
E poi il finimondo.
Un gol vissuto in Maratona era uno spettacolo.
Un gol alla gobba vissuto in Maratona non ha equivalenti nelle parole.
Tutti si abbracciavano, urlavano, si calpestavano felici. Uomini e donne di tutte le età.
Questa era la gioia granata.
La vidi sempre poco più in là, che sorrideva e agitava la sciarpa. Sorrideva più che mai.
Era bellissima ai miei occhi di ragazzino, in quel momento che stava per precedere la felicità.
Il Toro attaccò ancora, sfiorò il raddoppio, poi però le squadre parvero accontentarsi del pareggio per 1-1. Fino al novantesimo.
Quando Junior andò a battere un corner proprio sotto la Curva, parte sinistra dell’attacco.
Leo prende la rincorsa dunque, la palla percorre due tre metri e, come detto, il mondo si ferma.
C’eravamo proprio tutti quel giorno in quel momento, in quella Curva.
Mi sembra di rivedere tutti, come allora
C’era Max, di fianco a me, c’era Libano, seduto sulla balconata, c’era Aldo con gli altri amici di sempre.
E poi c’era lei, un sorriso biondo confuso tra la folla, un po’ più in là.
Ceri tu, c’ero io.
Sì, eravamo proprio in tanti in quell’attimo ora immobile. Il secondo prima della gioia.
Mi sono spesso chiesto cosa sarebbe successo se Leo avesse calciato male sul corner, se Serena si fosse inciampato, se quel corner fosse finito nel dimenticatoio.
Mi sono spesso chiesto se sarebbe stato tutto diverso.
Lei è lì, mi sembra di rivederla e mi chiedo cosa le avrei detto poco dopo, se Leo non avesse tirato così bene quel corner.
Non potrò mai saperlo.
Questo eterno istante è durato anche troppo, lasciamo che la felicità di quella gente esploda.
Ricordo solo la rete che si gonfiava.
L’urlo che partì quasi con un attimo di ritardo, per la sorpresa.
Fu il finimondo, una delle scene più belle che ricordi.
Tutti si abbracciavano, alcuni urlavano con gli occhi fuori dalle orbite, altri, molti altri, piangevano.
Venni proiettato verso il basso, chissà dove. Abbracciai una signora che neanche conoscevo, abbracciavo urlando chiunque mi capitasse a tiro, rotolando felicemente su altri tifosi, in quella bolgia meravigliosa.
Fu così che vincemmo quel derby per 2-1, grazie all’inzuccata finale di Aldo Serena, proprio all’ultimo minuto.
Fu festa, fu una festa incredibile. Ma forse molti di voi lo sanno fin troppo bene.
Preso da incontenibile gioia mi tuffai nei festeggiamenti con i miei amici e mi dimenticai completamente di quel sorriso biondo e delle parole che avrei dovuto rivolgerle, rimndandole alla gara successiva.
Invece non la vidi mai più.
Ogni gioia ha forse sempre una piccola parte di dolore.
Scomparve come nel nulla, non la vidi mai più allo stadio e non ne conosco il motivo.
E a nulla sono valse le ipotesi più disparate, dopo tutti questi anni
Il suo sorriso biondo venne come inghiottito da quella esplosione di gioia immensa di un freddo pomeriggio di novembre.
Chi lo sa? A volte penso di essermela soltanto immaginata, o forse mi piace pensare che si chiamasse “Felicità” e avesse voluto insegnarmi quanto quella parola alle volte duri lo spazio di un attimo.
E quanto sia importante esserci in quel momento.
Alle volte, sapete, ho come la sensazione che quell’istante non sia mai finito e che noi si sia ancora lì tutti insieme.
Sarà stato anche un attimo, ma è un attimo che forse non è mai finito.
Questa era la nostra istantanea, amici.
Dedicata a tutte quelle storie granata che quel giorno si intrecciarono e che meriterebbero di essere raccontate.
Ed è dedicata ad un Sorriso biondo.
Ovunque sia.
C’era Max, di fianco a me, c’era Libano, seduto sulla balconata, c’era Aldo che stringeva l’asta della bandiera, c’erano gli amici di sempre.
E poi c’eri tu, sorriso biondo confuso tra la folla, un po’ più in là.
Ceri tu, c’ero io.
C’eravamo proprio tutti quel giorno, in quel momento, in quella Curva. Mauro Saglietti
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