mondo granata

Quando la maratona si chiamava Maratona

Redazione Toro News
di Mauro Saglietti

Dicono che se ami veramente qualcuno, lo devi lasciare libero. Non lo devi considerare tuo, ma lasciarlo andare per la sua strada, anche se il farlo ti costa un dolore che ti sembra insostenibile.Non ho mai compreso questa frase fino in fondo, ma mi è tornata in mente durante questi giorni, mentre riflettevo su varie cose.Riflettevo sull’attualità granata, sull‘ambiente in generale, ovvio, e su una cosa in particolare.Se c’è una cosa per la quale provo molto dispiacere è che le nuove generazioni non abbiano mai potuto provare, oltre che le soddisfazioni per qualche risultato decente, anche una delle emozioni più grandi per un tifoso del Toro: vivere la vecchia Curva. Non quella del Delle Alpi, già nata monca per propria conformazione fisica.Quella storica del vecchio Comunale.E’ un discorso fatto e rifatto, forse vecchio come il cucù, però mi piacerebbe affrontarlo con voi in maniera diversa, evitando di abbandonarmi a facili nostalgie, e lasciando parlare il realismo dei ricordi come se fossero attuali. Facciamo due calcoli: chi ha oggi 30 anni, ne aveva circa 11, quando la vecchia Maratona chiuse i battenti, nel 1990. Forse qualche fortunato tra loro può aver avuto un fratello maggiore o un papà sportivo che lo ha instradato per tempo su quegli storici scalini. Ma gli altri? Chi ha 25 anni?Ci troviamo di fronte ormai a più di una generazione che ha soltanto sentito parlare, o visto fotografie, di un tempo sempre più lontano, da tutti definito magico.Cosa capitava veramente, quando si arrivava in Maratona?Com’era la gente, cosa capitava fisicamente?

 

Immaginiamo dunque che un grande orologio color oro sia di fronte a noi, piazzato proprio di fronte alla maratona, così come la conosciamo oggi, le cui lancette lentamente rallentano fino a fermarsi. Poi, altrettanto lentamente cominciano a girare al contrario, poi accelerano diventando velocissime, e si fermano nel primo pomeriggio di una domenica pomeriggio. Anni ’70 o ’80 poco importa. Facciamo anni ‘80 per esperienza personale.

 

Siamo ancora di fronte all’orologio.Sembra non sia cambiato nulla, ma è cambiato il mondo, oltre alle macchine che sfrecciano di fianco a noi...Quell’orologio analogico è stato installato all’inizio degli anni ’80, insieme ad altri, che sono spuntati nei posti chiave della città.Un giorno a qualcuno verrà in mente di rimuoverli, ma l’orologio del Comunale resterà per sempre quello più famoso nell’immaginario collettivo, il punto di ritrovo degli amici che arrivano da parti diverse della città, prima di entrare oltre i cancelli.

 

Come siamo arrivati fin lì?Cosa è successo prima di quel momento?

 

Per tutta la settimana c’è stata fibrillazione, non ci sono state partite il venerdì sera e il sabato e non ci saranno posticipi quella sera stessa o il lunedì. C’è voglia di calcio e c’è voglia di stare in Curva.Il conto alla rovescia comincia a metà settimana, sui banchi di scuola, dietro un testo universitario o in un’officina.I ragazzi più giovani, che fanno parte di qualche gruppetto organizzato, hanno cominciato a muoversi in anticipo. Ci sono i fumogeni da comprare, non ci saranno troppi problemi a farli entrare, e l’unico posto dove si possono procurare è la bottega di Perona, che produce anche striscioni e sciarpe. Il suo negozio è stato un andirivieni di ragazzi per tutta la settimana.Durante una serata, c’è stata una riunione all’interno di un appartamento, tra tifosi.Le sigarette vanno via una dietro l’altra e si accumulano nel posacenere, mentre in strada sferraglia una vecchia caffettiera verde, cigolando sui binari.- Allora, cosa facciamo domenica? Vi va bene la mia idea?- Sì, ma dobbiamo studiare meglio la posizione delle carrucole. Io sposterei le sagome più sulla destra…- Ok, chi procura i piatti di plastica? E’ sempre disponibile il tuo amico?Il tempo scorre sempre più veloce.Il sabato pomeriggio ci sono due ragazzi nel cortile di un alto condominio. Stanno ripassando con la vernice le scritte su alcune lenzuola. Dall’altra parte della città c’è un altro ragazzo che sta tagliando del polistirolo per farne delle sagome, che poi dovrà dipingere.E’ in ritardo e sa che dovrà fare in fretta, perché alle 19 arriverà il Ciccio col suo furgone per prenderle e sarà meglio per tutti che ci siano.Alla sera due ragazzi dalla faccia buona e dagli occhiali, parlano di ragazze al tavolo di una birreria.Il discorso scivola sull’indomani. Non sono iscritti ai gruppi organizzati, ma sanno che anche loro faranno parte di quello che succederà l’indomani.I coetanei li giudicano sfigati, eppure in Maratona nessuno li chiamerà così.Per loro la Maratona sarà l’accettazione, il luogo dove sentirsi accettati e dove trovare la forza di affrontare ostacoli che sembrerebbero altrimenti rovinosi.

 

La mattina della domenica si dorme a lungo. Ma non troppo.Gli occhi si spalancano e c’è un solo pensiero che trafigge la mente.La partita, il cuore palpitaC’è già chi è in movimento da tempo.Ci sono ragazzi che portano striscioni in spalla e c’è un furgone che entrerà nello stadio ancora in mattinata.Ci sono altri ragazzi che sollevano scatoloni, qualcuno invece nella pista di atletica di fronte alla Curva, manovra a gesti quelli che sono sugli spalti.- Più in là… no, più a sinistra. Le carrucole di là. Prova a tirare… vai così. Le sagome vanno laggiù…Nessuno di loro rinfaccerà mai quel lavoro, nessuno se ne vanterà, pretendendo una medaglia al merito. C’è tensione nell’aria, si contano le ore che mancano alla partita, mentre un esercito in fibrillazione si mette in movimento dalle proprie abitazioni.

 

Alla fermata del tram ci sono i ragazzi che conosci di vista, con la sciarpa granata al collo. Il veicolo sbuca dall’angolo e una volta sopra, si corre ad accaparrarsi i posti sul fondo, oppure si sta in piedi per esporre la sciarpa fuori dai finestrini.  Ad ogni fermata c’è una nuova truppa che sale e prende coraggio. Aste delle bandiere o sciarpe sbucano un po’ ovunque. A Porta Susa il tram è già colmo, spesso i primi cori cominciano proprio lì. Altrettanto sovente si inveisce contro il conducente. “Cocchiere schiaccia il pedale” è coro figlio di anni dove l‘ironia, grazie al cielo, non è ancora diventata merce rara.

 

Si scende e ci si trova in un incrocio trafficatissimo, governato con fatica da alcuni vigili.Corso Sebastopoli non è ancora chiuso al traffico e le macchine scorrono sotto la Maratona. Il posteggio è libero, soprattutto contro il recinto di Piazza d’Armi. I posteggiatori chiedono 1000 lire per la loro opera di sciacallaggio. Agli angoli le bancarelle vendono bandiere con il Toro stilizzato degli anni 80. Le maglie dovrebbero essere di lana, ma lì vendono quelle non ufficiali, di un terribile tessuto acrilico. Ogni tanto si fa un pensierino ad una bandiera, i prezzi però sono proibitivi per uno studente squattrinato.

 

Lo sguardo corre verso l’alto e riporta alla mente la prima volta che si è visto lo stadio.L’ultimo scalino della curva è avvolto da un lunghissimo drappo, legato alla ringhiera di ferro.E’ l’immagine rassicurante del bandierone che tutta Italia ci invidia. La sua visione ci rassicura.Mancano soltanto più quegli ultimi maledetti metri e l’emozione è tale che le gambe sembrano andare al rallentatore.Se sei in ritardo, intravedi l’ultimo scalino già colmo di persone in piedi, e sai che i tuoi amici sono tutti già lì e che forse è troppo tardi per riuscire a raggiungerli.Del resto non si arriva allo stadio quando mancano dieci minuti all‘inizio della gara. Nessuno lo fa. Spesso devi andare due ore prima, se non di più, se vuoi veramente vivere la Curva Maratona.

 

All’altro angolo della strada, c’è un confuso viavai dentro e fuori un locale. E’ il Bar Stadio, dove si può consumare un velocissimo caffé. I più pittoreschi se lo sono portati da casa, in un thermos.Entra di tutto allo stadio. Caffé, bibite, vino e birra. E anche altro. Il Bar stadio spesso affigge la scritta della prevendita su una delle vetrine.Non ci sono molti posti dove acquistare i biglietti in settimana. Ci sono i bar, ma hanno pochi biglietti di curva, oppure c’è la sede.Ma, se non si ha l’abbonamento, non ci sono quasi mai problemi ad acquistare il biglietto allo stadio.Ci sono due file di biglietterie ed in tre-quattro minuti, mai di più, si è in possesso del tagliando.I bagarini fanno vita grama. La Curva Maratona può contenere fino a 14000 persone stipate, e chissà quante volte ne ha contenute di più. Fanno la loro comparsa all’ultimo momento, quando la Curva è strapiena e solitamente si piazzano davanti al Bar Stadio o alla fermata del tram.Li riconosci subito perché sono tra i pochi non torinesi in un mare granata.

 

Padri con i bambini piccoli che imbracciano una bandierina, scivolano lentamente oltre la Curva, verso l’ingresso dei Distinti Centrali, dove ad attenderli oltre i cancelli troveranno l’immancabile signora della San Vincenzo, che chiederà semplicemente “Per i poveri…”, porgendo un contenitore che risuona di qualche moneta, oppure un venditore di Alé Toro, la rivista ufficiale.

 

Si fa in fretta ad entrare in Curva, a meno che non si sia già radunata la folla che attende l’apertura dei cancelli. In quel caso bisogna fare attenzione a non imbattersi, durante l’ingresso, in uno dei dannati incanalatori spartifolla in ferro, che vanno a stamparsi immancabilmente nelle parti intime, sotto la pressione della folla.Altrimenti, se sei arrivato con largo anticipo, ti puoi “accomodare” a cavallo degli stessi, attendendo che si apra una delle metà del cancello di ferro.La zona dell’antistadio è rimasta identica a quella attuale. Le perquisizioni avvengono subito dopo l’ingresso. La persecuzione contro aste delle bandiere, cinture etc. Ma questa è un’altra storia.Si corre in discesa verso i cancelli.- Compra la sciarpa dei Leoni!- La maglietta degli Ultras!- Ohu! L’adesivo dei Ragazzi! Dove vai?Soldi non ne ho quasi mai, e sono già bardato di sciarpe più di Rambo.Corriamo verso gli scalini e sbuchiamo…

 

Non vediamo l’altra curva. E neanche il campo, questo proprio no.Si vedono solo un mucchio di persone in piedi sull’ultimo scalino del settore inferiore. Gente pressata, non cade uno spillo. Molti gruppi di ragazzini o di persone “tranquille” si piazzano in quella zona.Difficile accedervi, l’ultimo scalino è rialzato di molto, rispetto al corridoio interno della Curva, dove sono piazzati i bagni.Si individuano le scale, tali e quali ad oggi, che conducono alla zona superiore.Se è tardi, sei fatto.Col cavolo che sali. Col cavolo che chiedi permesso. Col cavolo che hai il seggiolino che ti aspetta.Se riesci a raggiungere la tua zona, saluti gli amici e ti infili fra di loro, pressato tra altre persone.E’ questa la Curva Maratona di allora. Una marea granata che si sostiene a vicenda.Ognuno è indispensabile e nessuno è solista in quel mondo.

 

La zona centrale si riempie per prima. E poi velocemente tutto il resto.Si sta stretti e i più anziani consigliano sempre di non mettersi sopra a una “barrica”, una delle strutture in ferro che fanno da separatori. Capiremo in seguito il perché.Se è ancora presto, si può salire all’ultimo scalino ed ammirare da vicino il bandierone, per poi dare un’occhiata alla gente che sta arrivando da Corso Sebastopoli e da Corso Agnelli, ai tram che fanno capolinea… Non c’è tempo. Meglio tornare giù.Mentre ci si immobilizza, si cerca di capire con lo sguardo quale sarà la coreografia, questa volta. E spesso la suggestione ti prende e ti fa saltare di gioia perché hai recepito parte dell’energia collettiva.Sovente il tifo vero e proprio comincia 30 minuti prima del fischio iniziale.E’ il “treno” a dare la scossa alla Curva. Mani tutte in alto, battute ritmicamente fino ad accelerare in un “olè”. Ripetuto due o tre volte, prima di inneggiare al nome della propria squadra.E’ un To-Ro scandito, che viene dal profondo e ritmato dal tum-tum-tum dei tamburi.Non una cosa a 78 giri.L’effetto è impressionante.La Maratona piena è una muraglia dove senti di tutto, è una calca che fa paura per la sua imponenza, un luogo impossibile da evacuare in meno di 15 minuti.Ma lì non è mai successo niente.Lì non può succedere nulla.

 

Quando manca un quarto d’ora all’inizio della partita, si intravede movimento tra i capi della tifoseria, uno dei momenti chiave è scattato.I ragazzi della balconata aprono i loro scatoloni e ne raccolgono dei sacchetti di carta preconfezionata in sacchetti di nylon, che lanciano verso la gente.Alziamo tutti le mani per acciuffarne uno, o per richiederne il lancio.- A me!- Qui su! un altro.- Io ne ho presi due, tieni, dividiamo il mio!Molte volte sono sacchetti pieni di carta che devono essere ASSOLUTAMENTE lanciati alla lettura delle formazioni, pochi istanti più tardi.Sono attimi strani ed emozionanti, in quanto si sente la curva ondeggiare di voci incontrollate ed eccitate, tante piccole hole (oppure ole) confuse, che cercano di acciuffare il proprio sacchetto.Possono essere sacchetti di plastica o pennacchietti bianchi e granata, cartoncini riflettenti, fontane luminose da accendere per le partite notturne, tamburelli, trombette o che altro.A dieci minuti dall’inizio, puntuale come un orologio svizzero, l’inconfondibile speaker dalla caratteristica voce piemontese, annuncia dagli altoparlanti situati a bordo pista, rivolti verso la gente (ideona tecnica! Al Delle Alpi per anni non si è sentito nulla con il loro stereo…) che “Barovero, l’arbitro del vostro arredamento, comunica il nominativo dell’arbitro…”.Giù bordate di fischi. Spesso in Maratona la partita si guarda senza sapere chi è il direttore di gara.Segue la lettura delle formazioni, a cominciare da quella avversaria.E giù di nuovo bordate di fischi assordanti, che arrivano fino in Polinesia.Poi c’è un attimo di silenzio, che si attende come centometristi sui blocchi.- TORINO! - scandisce lo speaker.L’urlo fa tremare i polsi.I nomi sono scanditi lentamente. Nessuno si permette di applaudire o tanto meno di fischiare (cosa inconcepibile), a seconda della moda del momento.Sono dieci Olé, più un ultimo devastante OLEEEEE’, nel quale la carta vola via dalle mani e le bandiere sventolano in mezzo a una nevicata che sembra non finire mai.In molti a casa ritroveranno carta ovunque, anche nei posti più impensati.

 

Tutto si svolge sul filo dei minuti.La pista di atletica si riempie di ragazzi che vanno a raccogliere le bandiere, lì appoggiate in precedenza. Bisogna fare in fretta perché le squadre possono entrare da un momento all’altro.Comincia lo sventolio, la coreografia è quasi completa.Sotto la Curva c’è un tunnel di plastica cerata che scorre su ruote, dal quale le squadre faranno il loro ingresso sul terreno di gioco. I gobbi ne hanno uno uguale sotto la loro curva, per le partite interne. Viene fatto scorrere quasi fino al terreno di gioco.Accanto ad esso c’è un omone coi baffi, quasi sempre vestito di blu scuro, con una sciarpa granata, che fa segno alla Curva di aspettare.E’ Cucciolo, lui è il direttore e noi i musicisti di quello che sta per capitare.Sono le 14.30. Cucciolo si gira improvvisamente e dà il segnale di scatenare l’inferno.Non fai tempo ad urlare che sei già stato investito dal bandierone che scende dall’alto.

 

Stare sotto quel bandierone è stata una delle emozioni più grandi della mia vita, non mi vergogno a dirlo. Fai in tempo a farlo passare sulla tua testa, poi ondeggi la tela con le mani immaginando, soltanto immaginando che cosa possa essere quello spettacolo visto dall’esterno.Sono stati accesi i fumogeni, non si respira lì sotto.Ti metti la sciarpa sulla bocca, chiedendoti veramente se sopravviverai.Non all’odore velenoso. All’emozione.

 

Il Bandierone torna su e tu prendi aria.Ti accorgi soltanto che davanti a te è tutto fumo e che tu stai saltando.Anche senza volerlo. Tutta la curva sta saltando sulle note dell’Aida, sempre quella. E tu sei letteralmente sollevato dagli altri. Mani sulle spalle, sulla testa, ovunque.I fumogeni impiegano sempre qualche minuto a dissolversi.E si intravede qualche maglia granata che sbuca dalla nebbia, come la terra per una barca che è stata in balia della tempesta.

 

Come si può raccontare il tifo?E’ un coro unico, incessante. I capi tifosi spronano la folla, ma non è mai esistito un attimo di pausa in quella Curva. Sono cori che hanno un senso, dai quali ci si sente rappresentati, che hanno un significato di appartenenza.Raramente sono neniosi, ripetitivi, o sparati a capocchia, un insieme di suoni dei quali si è perso il significato. Praticamente mai. La Maratona interpreta la partita e soccorre chi è in difficoltà.Si arriverà alla bellezza della ripetitività, quasi ossessiva, in un crescendo quasi wagneriano, nel 1990, quando nell’ultimo anno della Maratona, impieghiamo 10 minuti per smettere di cantare le note di “Rosamunda”, mentre Ciro, in piedi sulla barrica, conta soddisfatto il trascorrere del tempo.

 

Il Toro attacca quasi sempre sotto la Filadelfia (la curva opposta - ahimè, per anni ho odiato quel nome) durante la prima frazione di gioco non c’è un attimo di pausa. La voce non impiega molto ad andare via, anche a un ragazzo di vent’anni.Nessuno si permette di contestare, anche quando le cose vanno male. Nella migliore delle ipotesi al malcapitato viene detto di “andare nei Distinti, perché quello è il posto dei contestatori”.Se per malaugurata sorte si prende un gol, la palla è ancora lì che ballonzola nella rete, che i capi tifosi stanno già spronando la gente ad urlare TO-RO! TO-RO! E questo anche quando si subisce gol ad una manciata di minuti dal termine, le rarissime volte in cui è capitato.

 

Alla fine del primo tempo, si cerca di mettersi seduti.Ma si è uno sui talloni dell’altro, spesso è impossibile farlo senza creare un effetto domino.- Ramazzotti, cognac, chi vuol bere?La cesta del bibitaro “Cappellone” (è uno pelato), passa tra una valanga di gambe e corpi, tra madonne e bestemmie.Ad un prezzo onesto si può avere una birra, schifosa e calda, ma pur sempre birra.Si approfitta della pausa per riprendere fiato, in pochi parlano e ci sono ancora 45 minuti da vivere e probabilmente c’è un destino da sovvertire. La Maratona può farlo.

 

Gli inizi della ripresa sono proverbiali e leggendari.Il Toro attacca sotto la curva e spesso lo fa a spron battuto, richiamato dal rombo tambureggiante della muraglia granata.Spesso gli avversari sono sorpresi e tanti risultati sono stati ribaltati o sbloccati in quei minuti.La Maratona è come una calamita, che dai e poi dai e poi dai, attira la palla verso di sé…, al cospetto della quale anche il più scarso tra gli scarsi raccoglie l’energia che si incanala tramite la gente e la fa propria, fino a farsi Hulk.E dai, e dai, e dai… sempre più forte.Fino a quando la palla entra.

 

Quando c’è il gol… Si potrebbero scrivere pagine, libri interi, ma non basterebbe.Per prima cosa l’urlo.E’ un grido collettivo, è un ruggito, un’ esplosione prolungata, non uno scoppio.La palla affonda nella rete, sta ancora scendendo e tu sei lì, con occhi sgranati e l’aria che sta per uscire dai polmoni.Urlerai, griderai a lungo, in un misto di incredulità, gioia e rabbia.Ma non avrai mai tempo per guardare bene quello che sta capitando.Perché capitano troppe cose in pochi attimi.La palla è in rete, sta cominciando a scendere verso il basso, dalle tua gola comincia ad uscire un grido che arriva da chissà dove.Quando arriva la spinta.Non arriva mai dalla stessa parte.Stai urlando GOL ma arriva un’onda che ti porta via e che spesso ti farà finire lontano decine di scalini.Se fosse un film, sarebbe un’atmosfera ovattata vista al rallenty.L’audio con il grido incredibile scompare e la telecamera punta su quello che succede, per poi riaccelerare.Una mano sulla schiena, un colpo da sinistra di uno che si è girato.Ti inclini, perdi l’equilibrio, nuoti.Vedi gente accanto a te che nuota, che cade, ma forse è impossibile sprofondare, perché arriva un’altra onda di riflusso che ti riporta indietro o ti spinge giù.Se porti gli occhiali cerchi di tenerteli ben saldi, anche se le mani servono a stare in equilibrio sugli altri.Gente che si strattona.In mezzo alle onde catturi il volto di una persona che non conosci.Non sei tu.Non è lui.E’ il noi.Lo abbracci come se fosse tuo fratello.Magari non lo rivedrai mai più, ma che importa?

 

L’onda continua. Qualche volta il giocatore che ha segnato corre sotto la curva, inseguito dai raccattapalle festanti.Le persone che siedono dietro la porta si sono alzate e sono corse verso il marcatore.Quando parte l’Aida e tu sei ancora lì in piedi insieme agli altri, ti chiedi come mai il tuo cuore abbia resistito e stia ancora battendo.Sarà bello alla sera rivedere le immagini del gol in tutte le trasmissioni, per imprimersi nella memoria la reazione delle persone tutte attorno, per risentire il boato, per cercare di rivivere un’eco di quello accaduto nel pomeriggio.

 

La Curva Maratona è spesso ironia, se la partita ha il risultato al sicuro, spesso ci si diverte con la goliardia. Il popolo di quella Curva non è un popolo truzzo, troppo concentrato sul suo viso incarognito per non saper ridere di se stesso.In Maratona si ride, tutto si trasforma nella piazza dei giocolieri, come quando Fracchia mette le chiappe al vento, o quando ci si scatena con sfottò goliardici su una giornalista o un avversario, o ancora come quando a qualcuno viene in mente di cambiare un coro di chiesa, in un coro ant-juve. Ed è così che Al-le-lu-ja diventa ju-ve-me… Non ricordo il finale.

 Quando la partita finisce, tutti si abbracciano, se si è vinto, ma gli applausi spesso non mancano anche nei rari pareggi.Il compito della Maratona è quello di portare la squadra alla vittoria… Quante partite vinte in quegli anni in casa. Facevano la differenza.I giocatori infilano il tunnel e salutano, prima di scomparirci dentro.Quello è il momento in cui può volare qualche fischio, se le cose sono andate male.Solo allora.Quando la gente sfolla, devi aspettare un bel po’ perché la coda giù dalle scale, sarà lunga.E allora ti abbandoni su quegli scalini, stremato, guardando i tuoi fratelli, spettatori e attori principali allo stesso tempo di quello spettacolo, mentre sfollano lentamente e il rombo unico della Curva ridiventa le tanti voci di tutti i giorni.Spesso ti addormenterai la sera con quel rombo ancora nelle orecchie e rivivrai mille volte nella mente i ricordi, come se fossi ancora lì, prima di cedere al sonno ed archiviare i ricordi per i tempi bui.In fondo ti accorgi che il gol non è finito, ma che continuerai a fare gol tutta la settimana.Il giorno dopo porterà una nuova storia da raccontare, e anche chi tifa per la squadra sbagliata, sa che non può competere con la tua fierezza per essere stato nel luogo più bello che c’è.Quando anni dopo la curva chiuderà, con un Toro-Messina, forse non riuscirai a capire che una parte importante del Toro morirà proprio quel giorno.

 

Siamo di nuovo di fronte all’orologio e sappiamo che tra breve dovremo lasciare questo tempo.Cosa dire di più, mentre la gente sfolla e rivedi te stesso, mentre sali stanco e felice sul tram?La Curva Maratona…La Maratona non era rimpianto e non era attesa. Era eterno presente, era il treno della vita che si fermava alla fermata giusta.La Maratona rendeva fenomeni i brocchi, non rendeva brocchi i fenomeni.Non ricordo una singola volta in cui si sia dovuto dire “Il Toro siamo noi” o si sia dovuti ricorrere all’autoreferenzialità, per essere definiti.Non c’era bisogno di dire che fosse il dodicesimo uomo in campo.Lo era e basta, e spesso era anche di più.Spesso si è parlato di quella curva come magica, speciale e non a torto “la più bella del mondo”.Soltanto ora però, mi rendo conto che erano le persone che la componevano ad essere veramente speciali, perché si erano resi conto, senza sé e senza ma, che stavano tifando per la squadra della propria città. Questa gente, che tifava “Torino” prima di tifare per il Toro, aveva compreso che quella scelta, sarebbe stato l‘unico modo di difendere la propria identità, la cultura ed il proprio spirito, contro i cambiamenti sociali ed economici che erano partiti molti anni prima ed avevano stravolto il tessuto sociale stesso. Da questo arrivava la loro rabbia incrollabile. Erano Tori loro, prima di chiedere ad altri di esserlo.Erano persone che sublimavano la propria energia nella coralità di quel luogo e che riuscivano ad avere un senso compiuto e completo soltanto stando insieme agli altri e canalizzando i loro desideri in uno solo.Era una Curva di persone normali che alla domenica diventavano artisti.Pittori, cantori, poeti del presente, registi della propria gioia e della voglia di vivere.

 

La spezzettazione internettiana non ci aveva divisi in mille rivoli aridi arroccati sulle proprie posizioni che rivendicano la propria spocchiosa babelica individualità, odiandosi l’un l’altro.Non avevi il tuo avatar da difendere col nome roboante di “Falco della notte” ammantato di onore e servetti acclamanti, o puttanate del genere.Per carità.  Le tastiere hanno spalancato tombini e cloache. A molti non è sembrato vero di poter far defluire il proprio astio in ruscelli individuali carichi di odio ed è stata dato sfogo e spazio a chi fino a quel momento aveva avuto soltanto un modo per farsi sentire.A chi aveva solo due sillabe a sua disposizione per far sentire al mondo che esisteva.Due, e te le dovevi gestire al meglio.Una era “TO”, l’altra era “RO”.E le urlavi, porca miseria, oh come le urlavi, fosse stata anche l’ultima cosa che avresti avuto da dire a questo porco mondo.

 

Le lancette dell’orologio si mettono a ricorrere in avanti e mi riportano al tempo attuale.L’esterno della curva attuale ricompare, poco prima di una partita.Le cose cambiano per tutti. Sono cambiate anche per noi.Non è colpa di nessuno, o forse è colpa di tutti.La repressione spesso assurda e fuori luogo (quanta gente uccisa a colpi di tamburo!) il passare degli anni, i cambiamenti sociali, i mancati ricambi generazionali e l’affossamento subito da parte della città hanno fatto il resto.E chi c’è, fa quello che può, secondo le proprie possibilità.- Non entri? - mi chiede un amico.- No… non vengo più…Mi guarda stupito e mi chiede come mai.Alzo le spalle. Inutile negarlo, ora ci si detesta e chi tace lo fa spesso per paura, e quello che è successo sabato, con due parti della curva che si insultano e si disprezzano vicendevolmente, dovrebbe dirla lunga e fa veramente male.

Capita sovente di sentirsi a disagio, o scarsamente rappresentati, o di essere pesantemente in disaccordo su alcune scelte, cicliche nel tempo.Quando, dopo venti minuti di lamenti e insulti del tuo vicino, che vanno avanti dal calcio d‘inizio, hai un moto di rabbia perché manca ancora un‘ora e tutto può accadere, magari trovi lo spinellato di turno al terzo cannone consecutivo, con le pupille vuote più grandi della luna, che ti dice che se non ti va bene la contestazione, è meglio che ti accomodi in un altro settore o che te ne stai a casa.

 

Ed è così che farò.Lo hanno già fatto molti miei amici, non sarà un dramma.Mi avevano messo sul chi va là, ed io non ho voluto dar loro retta.E’ giunto il momento di abbandonare quegli scalini che ho tanto amato e forse è giusto lasciare campo e spazio a chi ha un modo di interpretare le cose ormai completamente differente dal mio, a un mondo diverso, chi lo sa, non per questo necessariamente meno giusto.In fondo non me l’ha ordinato il medico e si può sempre scendere dalla barca, se secondo te è su una rotta sbagliata, augurandole comunque di non affondare mai.

 

Dicono che se ami veramente qualcuno, lo devi lasciare libero. Non lo devi considerare tuo, ma lasciarlo andare per la sua strada, anche se il farlo ti costa un dolore che ti sembra insostenibile.Non ho mai compreso questa frase fino in fondo, ma credo che, tutto sommato, abbia un fondo di verità. Mauro Saglietti