Venerdì 5 febbraio. Pomeriggio. Partenza
mondo granata
Ritorni
Genova d’inverno non è soltanto sole, mare e temperature miti. Quest’oggi, per esempio, Genova è pioggia e vento gelido che proviene dalle valli e ti entra nelle ossa, rendendo inutile l’uso di qualsiasi ombrello. Dopo averne distrutti tanti, lo ha capito anche la mia testa dura di piemontese cocciuto che gli ombrelli non servono a niente quando il vento fa piovere storto.Oltre quei monti, che si ergono come guardiani alle spalle della città, c’è l’ignoto. Qualcuno dice pioggia. Qualcuno nevischio. Altri neve. Ma l’incoscienza, frutto dell’amore, mi spinge ad andare a vedere. Sono due mesi e passa che non ci vado. E, alla faccia di questo inverno che sembra non finire mai, io dovrò mettermi in viaggio per essere là a respirare di nuovo l’aria di Toro.Porto al collo la mia sciarpa antica ed inconfondibile. La gente per strada mi guarda con la stessa curiosità con cui gli Eschimesi guarderebbero una giraffa. Qualcuno scuote la testa. Qualcuno mi chiede chi me lo faccia fare. Qualcun altro, che ha conosciuto i campi della C prima di godersi il successo di questi tempi, mi abbraccia idealmente mandandomi chiari segnali di rispetto. Rispetto che io continuo a ricambiare malgrado tutto. Il viaggio verso l’ignoto inizia intorno alle 16. Si passa dal traffico della città al vento del lungomare. Poi, quasi all’improvviso, tutto diventa bianco. Perché Genova non è solo mare, ma è anche monte. La pioggia diventa neve. La lunga fila di macchine e di camion passa da una galleria all’altra. A brevi accelerate seguono lunghi tratti percorsi a rilento. Si procede molto lentamente. Per fare una trentina di chilometri ci metto circa un’ora. Guardo nervosamente l’orologio. Di questo passo non ce la farò mai ad arrivare in tempo. Sarebbe davvero una beffa se, dopo essermi fatto questo mazzo, non riuscissi a vedere la partita manco in televisione. Se dovessi ascoltarla per radio come si faceva una volta, chiuso dentro l’abitacolo di un’ automobile persa non si sa dove in mezzo ai monti. Per non parlare della delusione che proverei se, una volta riuscito a raggiungere la meta, scoprissi che la partita non si fa per colpa del maltempo. D’altra parte, rinviare le partite sembra essere diventato il secondo sport nazionale dopo quello di creare mostri da additare al pubblico ludibrio salvo poi dimenticarli. Ma non ci voglio pensare. Non adesso. Adesso devo stare attento, guidare, arrivare a destinazione. A quel punto si vedrà….Per fortuna, quando mi lascio i monti alle spalle, le condizioni del tempo e della strada migliorano. I camion riprendono a sfrecciare e a superarsi tra loro come impazziti. La nevicata diventa meno insistente. Si trasforma in debole nevischio. Procedo sulla solita strada percorsa migliaia di volte. Alessandria. Asti. Villanova. Santena. Moncalieri. Torino. Finalmente Torino. Dopo oltre tre ore di viaggio, parcheggio la macchina nel solito posto e mi chiedo se sia valsa la pena di affrontare questo viaggio. Mi rispondo, volendo convincere me stesso, che sì ne vale sempre la pena. Anche se la mia mente non riesce a cancellare il ricordo di certi viaggi del recente passato coronati da delusioni indicibili.Scendo dall’auto con la mia nuova felpa granata addosso e con la sciarpa al collo. Respiro l’odore unico della mia città d’inverno. Tanti lo trovano sgradevole, e forse hanno ragione. Ma quando non lo sento da un po’ mi manca come al bambino manca la madre.
Venerdì 5 febbraio. Sera. Ritorno.
Tornare allo stadio dopo oltre due mesi di assenza vuol dire rivedere facce familiari. Sono le facce della gente granata rese pallide o rosse dal freddo. Le facce segnate dei più anziani che hanno il cuore ancora pieno dei ricordi di un passato ormai sempre più lontano e che si chiedono cosa li spinga ad essere ancora lì a prendere la loro buona dose di freddo. Le facce quasi rassegnate dei tuoi coetanei, quelli che per qualche anno hanno respirato il Toro illudendosi che il Toro fosse quella roba là, e non questa povera squadra che da oltre quindici anni si dibatte tra retrocessioni più o meno attese, promozioni illusorie, morti presunte e rinascite mai completate; sono forse i più tormentati di tutti perché vivono la condizione di chi ha passato l’infanzia e l’adolescenza nella speranza che il Toro tornasse veramente grande e, invece, lo hanno visto diventare sempre più piccolo. Le facce dei ragazzini che quel Toro non l’anno visto mai se non nei filmati d’epoca e nei racconti dei loro genitori. Le facce pure e piene di speranza dei bambini, che sono convinti che il Toro sia la squadra più forte che c’è. Per il semplice fatto che il papà, che li tiene per mano, è del Toro. Presto, forse, andranno incontro ad una grande delusione. Ma per ora è bello vederli ridere felici.Tornare allo stadio vuol dire pensare a cosa sentivi dentro l’ultima volta che ci sei venuto. Prima della partita. Durante la partita. Al termine della partita. Pensavi di tornarci dopo due settimane, avevi già progettato di cambiare posto avendo appurato che quello in cui ti mettevi di solito portava male. Ma poi ti sei dovuto rendere conto che a volte i programmi sono fatti per saltare in aria davanti agli eventi. Hai passato periodi nei quali il momento in cui saresti tornato alla stadio ti sembrava lontano anni luce. E invece eccoti qui. A osservare questi colori e queste facce. A sentire queste voci dall’intonazione a te così famigliare. Eccoti qui pronto a riabbracciare nuovamente gli amici, quelli che non vedevi da quel lontano, eppur così vicino, giorno di novembre.Ecco il Polacco, tuo compagno di mille battaglie. Ecco il giovane Pietro che non vedevi da oltre un anno. Ecco la Silvia, la cara Silvia con cui ti sei sentito e scritto tante volte in questi due mesi. La Silvia che ti abbraccia. La Silvia che sa trovare sempre parole di speranza e di ottimismo. Purtroppo, non c’è Nives che è rimasta bloccata a Milano e che rischia di non riuscire a vedere la partita manco in televisione.Quanto ti mancavano i canti di quella curva. Quante volte hai pensato alla voce calda dello speaker che annuncia i nomi dei ragazzi. Quei ragazzi vestiti di granata che hanno nomi spesso diversi da allora. Ma ora sono loro il Toro. Sono loro il tuo Toro.La partita sta iniziando, e tu avresti voglia di dire a tutti, di gridare forte a quelli che sono in campo, alle persone che sono vicine a te, a tutto il mondo: ragazzi, eccomi qui! Finalmente sono tornato!
Finale allegro. Sabato 6 febbraio.
E forse, dico forse, è tornato anche il Toro. Sarà dura rimediare ai disastri del recente passato che ci sono costati un sacco di punti. Ma almeno ora abbiamo una squadra. Che corre. Che lotta. Che non si arrende nelle avversità. Una squadra che non è nemmeno lontana parente di quella che si perdeva alle prime difficoltà e che stasera si sarebbe sciolta di fronte ad un’avversaria così tosta. Una squadra da sostenere e da applaudire. Una squadra per cui, ora posso dirlo, vale la pena affrontare tanti sacrifici pur di esserci (alla faccia degli assenti impauriti dal freddo o non so da cosa). Una squadra che possiamo finalmente tornare a chiamare Toro!
Finale triste (che non c’entra, ma c’entra). Domenica 7 febbraio.
La notizia mi ha gelato il sangue mentre stavo pranzando e mi ha ricordato il momento in cui, quasi sei anni fa, appresi della morte del Pirata. Addio Ballero, vecchio campione, giovane commissario tecnico, grande uomo. Tra tanti ricordi, il più vivo risale al 2001 ed è quello del tuo arrivo a braccia alzate nel velodromo di Roubaix. Non festeggiavi una vittoria visto che eri staccato di molti minuti dai primi, ma il fatto che quella era la tua ultima corsa. Avevi deciso di chiudere la carriera proprio lì dove, vincendo due volte, avevi costruito la tua storia di corridore. Indossavi una maglietta con sopra scritto “Merci Roubaix” in segno di rispetto verso quella corsa e quel pubblico. Di quel pubblico, quel giorno, facevo parte anch’io che avevo percorso oltre mille chilometri per applaudire i miei eroi dalla faccia coperta di terra e di carbone in quello che chiamano l’”Inferno del Nord”. Non immaginavo che dopo pochi mesi avresti guidato, portandola a grandissimi successi, l’Italia del ciclismo. Non immaginavo che, meno di dieci anni dopo, la morte ti avrebbe atteso dietro una curva. Mancherai tantissimo a me ed a tutti quelli che amano lo sport.
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