mondo granata

Stand by me

Stand by me - immagine 1
di Mauro Saglietti
Redazione Toro News

(pubblicato l'8 maggio 2009)

La prima volta che mi trovai tra le mani Stagioni diverse fu durante una delle soste delle nostre interminabili partite di calcio nel paesetto di montagna. Era l’estate 1982.- Pare che questo libro faccia paura… - disse Jim il Grande, il ragazzo che aveva portato il libro al campo sportivo.E’ fin troppo chiaro che non si chiamasse Jim, si era in Italia, non in America.Ma le pieghe del tempo hanno nascosto il vero nome di quel ragazzo grande e grosso, coraggioso sul campo e fuori, che nell’estate 1982 fu il mio migliore amico. Mi prestò quel libro, che sonnecchiò per qualche giorno sul tavolo della camera.Poi in un giorno di pioggia, decisi di leggerne qualche riga, affacciato alla finestra che dominava il pendio, dal quale intravedevo il campo sportivo ed il mulino poco distante.Quelli che dovevano essere pochi minuti, divennero ore nelle quali venni rapito dalle vicende che si sviluppavano.Ne parlai al campo sportivo con Jim il Grande, con Vic, Miguel e Manuela, gli altri protagonisti di quell’estate infinita, la cui lista non sarebbe completa senza il mio cane Virgola.Spesso ci fermavamo dopo le partite per leggere insieme qualche pagina, e facevamo sera in silenzio, riflettendo su quanto avevamo letto, quasi entrando come per magia nei racconti del libro. Molte volte ero io a leggere, altre volte Manuelina, che sottolineava con la sua voce i passaggi più emozionanti.Man mano che i giorni passavano, arrivammo a rinunciare alla consueta partita, e ci sedevamo a leggere nell’erba di un’area di rigore, con bibite e patatine, ansiosi di scoprire cosa nascondesse la pagina seguente.

 

Nessuno di noi conosceva ancora Stephen King.Leggemmo il primo dei quattro racconti di Stagioni diverse, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank.Il racconto che simboleggiava la primavera, ci catturò immediatamente e nessuno di noi poteva immaginare che dopo qualche anno ne sarebbe stato tratto un meraviglioso film. Restammo a bocca aperta per il finale di Un ragazzo sveglio, il racconto, che simboleggiava l’estate.Ma fu solo leggendo Il corpo, il terzo racconto, simbolo dell’autunno, che fummo proiettati in un altro universo.

Il corpo narrava le vicende di quattro ragazzi che, nella campagna americana del 1960, partono alla ricerca del corpo di un ragazzino che è stato visto lungo la massicciata di una ferrovia, una sorta di iniziazione alla vita e all’amicizia.Bè, noi non eravamo quattro, eravamo cinque ma non poteva fare una gran differenza.Ci immedesimammo in quel racconto di amicizia che solo un grande scrittore, come compresi con gli anni, sarebbe stato capace di scrivere. E identificammo le azioni dei quattro protagonisti con le nostre.Uno dei ragazzini protagonisti aveva la stoffa dello scrittore e teneva compagnia agli altri, nelle serate attorno al fuoco, raccontando le proprie fantasie.Pensavo a me stesso in quei momenti. Quanto mi sarebbe piaciuto essere capace di tirare fuori dal cilindro della mia immaginazione una storia da raccontare. Una di quelle che spesso fluivano nella mia mente poco prima di addormentarmi. Storie di altri mondi, di viaggi nel tempo, di amori che si materializzavano, proprio con le ragazze con le quali chissà se sarei mai riuscito a combinare qualcosa.Avere fantasia e scrivere un racconto probabilmente significava esserne totalmente assorbito e viverne l’esperienza come reale, pensavo.

 

Trascorremmo tantissimo tempo insieme quasi dimenticandoci delle nostre famiglie, leggendo lentamente fino a ora tarda, alla luce della lampadina del bar del campo, assediata dagli insetti. Virgola abbaiava a qualche cane distante, mentre le nostre voci scandivano i passi dei protagonisti del racconto, che procedevano lungo la massicciata della ferrovia.Sapevamo che alla fine dell’estate separarsi non sarebbe stato facile, lo sentivamo tutti senza ammetterlo, quasi la lettura di quel libro ci avesse unito come nessuna partita di calcio era mai riuscita a fare.

 

Avevamo quattordici anni, le bici su cui correre, qualche paura da sconfiggere e un grido di battaglia.Il solo uomo oltre la collina! Quella frase era il nostro motto, anche se non significava nulla. Nessuno sapeva con precisione da dove fosse saltata fuori. Ci era piaciuta e la gridavamo nei momenti più impensati, modo non convenzionale per dichiarare quanto stessimo bene insieme.Miguel era di origine spagnola, e spesso mi chiedevo quale tortuoso gioco del destino lo avesse condotto fino alle nostre Valli. Era un bel ragazzo dai capelli castani, dietro cui si perdevano i sospiri di tre quarti delle ragazzine del paese. Era l’unico di noi che vivesse in pianta stabile nel paese di montagna e non provenisse dalla città.Vic era una ragazza molto graziosa dal taglio degli occhi leggermente a mandorla, circondati da un caschetto castano. Adorava andare sui pattini, indossava shorts bianchi ed una maglietta gialla e credo di non averla mai vista vestita in modo differente per tutto il periodo nel quale ci frequentammo.Sapevo di piacerle, ma spesso è una ruota che gira. Lei guardava me. E io guardavo in un’altra direzione.

 

Manuela era il personaggio più reale che conoscessi.Si nascondeva dentro i suoi occhi color nocciola ed i colori pastello, tutto il contrario delle ragazze che volevano mettersi in mostra ad ogni costo. Avevamo fatto conoscenza quasi per caso, urtandoci al mercato del martedì mattina. I suoi genitori erano originari del Paese, ma da anni si erano trasferiti in città e tornavano in montagna soltanto per le vacanze estive.Ne ero segretamente innamorato, ma ovviamente lei non avrebbe dovuto sapere nulla, anche se speravo segretamente che la storia si potesse chiudere con un lieto fine.Ma anche lei, ahimé, come molte altre, non aveva occhi che per il suo Miguel, lo spagnolo dagli occhi chiari e dal sorriso facile.

 

Avevamo le nostre paure da sconfiggere.Il Dottor Acciaio, ad esempio.Lo chiamavamo così, anche se non riuscimmo mai a scoprire il suo vero nome.Era un omone completamente calvo, dallo sguardo cattivo.Aveva una mano finta e qualcuno diceva che non fosse una semplice protesi, ma fosse fatta d’acciaio, perché brillava e scintillava al sole.I bambini del Paese avevano paura di lui. Un gruppo di ragazzini che erano andati a fare il bagno nelle acque di un torrente vicino al paese, se lo erano trovati davanti ed erano scappati a gambe levate, vedendolo arrivare di corsa.Nessuno poteva fare niente perché nessuno sapeva dove vivesse. Si materializzava improvvisamente dal nulla e si credeva che vivesse nascosto da qualche parte nel bosco, un babau di cui tutti erano terrorizzati.Jim il Grande non ne aveva paura, ma se la vide brutta.Amava andare a pesca con l’attrezzatura del padre, risalendo il torrente nel quale i ragazzini lo avevano incontrato. Un giorno di inizio estate, mentre stava cercando di recuperare l’amo, vide qualcosa scintillare dall’altra parte della riva.Era la mano del Dottor Acciaio.Sorrideva malvagio.Si gettò verso Jim il grande, con la mano levata. Con coraggio estremo Jim il Grande non fuggì, ma lo colpì al collo con un gesto istintivo della mano, dall’alto in basso, facendolo scivolare nel torrente.Poi scappò via, corse per chilometri.Lo vedemmo arrivare al campo stremato e senza fiato.Ci raccontò l’accaduto e corremmo a raccontarlo alla Polizia.Per molti giorni fummo preda della paura, poi ci dimenticammo del Dottor Acciaio, vittime dell’incoscienza della nostra età.

 

Il Dottor Acciaio non era il solo incubo. Anche io dovevo combattere contro i miei.Alle volte durante la notte sentivo arrivare le ombre lunghe da distante.Mi svegliavo di soprassalto e accendevo la luce, impaurito. Non ero più un bambino e quei sogni mi terrorizzavano. Mi ritrovavo sveglio con un suono sinistro e incessante nelle orecchie, che non finiva mai, e che spesso mi perseguitava anche durante il giorno.Le ombre lunghe, qualcosa che stava arrivando per prendermi. Qualcosa da un posto lontano.Pregavo che quegli incubi smettessero, e spesso venivo esaudito.Ma sapevo che, da qualche luogo lontano, le ombre lunghe stavano arrivando.

 

Fu durante la lettura de Il corpo che cominciammo a parlare della Casa delle sorelle matte.Era buio e ci eravamo distesi a guardare le stelle al campo sportivo, nella mente ancora l’eco del capitolo letto da Manuela fino a pochi istanti prima. Parlavamo di quanto sarebbe stato bello partire tutti insieme alla ricerca di qualcosa, fosse stato anche un tesoro immaginario, per celebrare l’estate che si stava rivelando la più bella della nostra seppur breve vita.Fu Miguel, che viveva tutto l’anno nel paesetto, a parlarne.- Conoscete la casa delle sorelle matte?L’amico parlò di una storia che si perdeva nel tempo.Si diceva che lontano, da qualche parte nel bosco, si trovasse la Casa delle sorelle matte. Una sinistra costruzione abbandonata da decenni, dove si diceva avessero vissuto ai margini della società due anziane sorelle. Le varie voci del paese, che si erano moltiplicate, avevano costruito una leggenda su quella casa. Si diceva che all’interno si fosse verificato un fatto di sangue, che il fratello delle due donne in realtà non fosse morto in guerra, ma fosse stato ucciso da loro due, poi erano passate poi a miglior vita in solitudine. Sarebbe stata una storia di emarginazione, non fosse stato per il fatto che qualche anno prima, un bambino del paese si era smarrito nel bosco. Erano scattate subito le ricerche, ma soltanto il giorno seguente il bimbo era stato ritrovato, impaurito e infreddolito nel bosco.Aveva raccontato una strana storia, affermando che due vecchie e spaventose donne gli avessero fatto trascorrere la notte in una casa poco distante e che lui fosse scappato alle prime ore dell’alba, approfittando di una loro distrazione.Le forze dell’ordine avevano individuato la casa e l’avevano setacciata, seppur pericolante, senza trovare il minimo segno recente di occupazione.La cosa era morta così, ma da allora si era creata la leggenda della casa delle sorelle matte. Nessuno ricordava con precisione dove si trovasse e se esistesse veramente, eppure c’era sempre qualcuno che diceva di averla intravista tra gli alberi, con una donna vestita di bianco che si affacciava da una delle finestre vuote, puntando una piccola lanterna verso gli intrusi.- Vi piacerebbe andarci? – chiese Miguel alla fine del racconto.- Tu ci sei stato? – gli chiese Manuela con un filo di voce.Miguel non rispose. Era buio ma potevamo scommettere che stesse ridendo.Chissà quante volte aveva lasciato le ragazze senza fiato con quella storia.Continuammo a lungo a guardare le stelle, senza più parlare.Qualunque cosa sarebbe successa eravamo protagonisti del nostro tempo. Forse ci addormentammo e sognammo che quell’estate non finisse mai.

 

Partimmo la settimana seguente, dopo mille tentennamenti.Avevamo la fortuna di avere genitori di mentalità aperta, che si fidavano e sapevano quanto fossimo coscienziosi. Tuttavia non videro certo di buon occhio il fatto che avessimo in mente di trascorrere una notte da soli lontano da casa. Ovviamente non facemmo menzione della Casa delle sorelle matte e ci limitammo a parlare di una gita al Lago Azzurro, meta abituale di molti escursionisti.- Mio padre vuole che io sia qui per domani alle 5, dobbiamo andare a vedere Torino-Foggia – disse Jim il Grande - Non è tanto preoccupato dal fatto che io passi la notte fuori, quanto che io non torni in tempo per domani. Ha già comprato i biglietti…Sorrisi, mentre lo aiutavo a piegare la sua famosa tenda, che per quella notte sarebbe stata la nostra casa.

 

Partimmo dunque quel pomeriggio, lasciandoci il paese alle spalle, in una delle ultime calde giornate che l’estate aveva deciso di regalarci, incamminandoci lungo la strada principale. Noi cinque, più Virgola che inseguiva le farfalle.Poco distante da noi un camioncino rosso percorse la curva prima dell’incrocio del Mulino ad alta velocità. Le ruote fischiarono e ci spostammo nel prato vicino.Era il furgone rosso della polleria, guidato dal giovane Cescu, perennemente ubriaco a qualsiasi ora del giorno o della notte. Più volte avevamo pensato che se non gli avessero ritirato la patente, quel pazzo prima o poi avrebbe fatto del male a qualcuno. Virgola si lanciò alla sua rincorsa ringhiando, e dovetti faticare per trattenerlo. Molti cani iniziarono ad abbaiare in risposta. Dalle vicine cascine qualcuno si affacciò per lanciare improperi contro il pirata della strada. Una Lancia Fulvia bicolore, con dei pneumatici da rally legati sopra il portatagli, rallentò ed un signore mostrò il pugno al furgone che si stava allontanando.Scuotemmo la testa, poi ci avviammo.

 

Miguel faceva strada percuotendo il bastone contro le pietre del sentiero, per scacciare eventuali ospiti indesiderati dal sentiero, mentre ci addentravamo nella boscaglia.- Il solo uomo oltre la collina! – gridò il nostro amico, e noi gli facemmo eco.Virgola procedeva beato di fianco a me, che chiudevo il gruppo.Quando ero con lui fischiettavo sempre una canzoncina che mi ricordavo di avere ascoltato qualche anno prima.- Cosa stai fischiettando? – mi chiese Manuela curiosa.- Non ricordo le parole… mi sembra…Mi zittii improvvisamenteVirgola stava ringhiando.Lo faceva solo in situazioni di pericolo.Guardava dietro di me e ringhiava.- Ragazzi… - feci in tempo a dire.Mi voltai già sapendo cosa avrei visto.Il luccichio della mano del Dottor Acciaio splendeva nel sole che si infilava tra gli alberi.Era immobile, a una ventina di metri da noi, e sorrideva malvagio.Manuela si nascose dietro la mia schiena, terrorizzata.Non ci fu tempo di pensare.Virgola, quasi avesse percepito le vibrazioni negative del Dottor Acciaio, scattò in avanti e si gettò verso l’uomo.Vidi l’espressione sul volto del matto mutare da rabbiosa ad impaurita, un istante prima che si desse alla fuga.Virgola gli corse dietro, ma l’uomo fu più veloce. Scappò terrorizzato in direzione del Paese e se il cane l’avesse raggiunto, ragazzi, credo proprio che quel giorno del Dottor Acciaio non sarebbe rimasta che la mano.

 

- Il solo uomo oltre la collina! – gridò Jim il Grande sghignazzando- Ah ah… avete visto come è scappato? – ridacchiò Miguel – datemi retta, quello è solo un povero pazzo…Ci armammo di bastoni e per un po’ camminammo facendo attenzione a quello che avremmo potuto trovare alle nostre spalle, per poi lasciarci travolgere dalla gioia del nostro viaggio verso la vita.Camminammo per un paio d’ore, poi, proprio mentre Miguel stava intavolando uno strano discorso sul fatto che a Carnevale si fosse travestito da Egiziano per la recita di classe e avesse dovuto alzare ed abbassare un ventaglio per molte ore, ci trovammo di fronte ad una biforcazione del sentiero. La traccia più battuta presentava una piccola indicazione, fissata ad un albero, e avrebbe condotto al Lago Azzurro in meno di 30 minuti.La seconda, più stretto e invasa dalle erbacce, si perdeva nel fitto del bosco.- Io continuerei su questo sentiero. – disse Manuela – indicando quello che portava al Lago Azzurro - Ricordo di aver sentito un giorno mia madre dire che esiste un vecchio capanno lungo il lago. Lo chiamano “il capanno degli innamorati”. Credo che sia lì che i miei genitori…- arrossì - Mi piacerebbe vederlo… Dobbiamo proprio andare verso quella vecchia casa? Io… in fondo ho paura… La proposta non mi dispiaceva, ma ero combattuto tra l’amore per il mistero e il suo timore.Gli altri tre però scelsero di proseguire per il sentiero di destra, che si addentrava nella boscaglia e conduceva, secondo Miguel alla casa delle sorelle matte. Manuela mise su il broncio e si accodò per ultima al gruppetto, procedendo di malavoglia.Non fare così… - le dissi – ci andremo un‘altra volta, vedrai…- Ci tenevo… - mormorò nella sua giovane arrabbiatura, che mi parve irresistibile. Vidi che il suo sguardo andava alla ricerca di Miguel, in testa alla fila con delusione. Superai un ruscello e le porsi la mano per aiutarla a scavalcarlo.Solo allora sembrò accorgersi di me…- Perché hai queste cicatrici sulla mano? – mi domandò – sembrano dei graffi.Non lo sapevo. Non ricordavo se quei segni sulla mano fossero un episodio dell’infanzia precipitato nell’oblio, o cos’altro.Non feci in tempo a trovare una spiegazione che non esisteva. Mi portai una mano alla testa, la mente nuovamente trafitta da quel suono acuto e penetrante che andava aumentando di intensità.- Cos’hai? – mi chiese preoccupata, tenendomi l’altra mano…Le spiegai, vergognandomi un poco. Le raccontai di quel suono, lasciando che gli altri andassero avanti di qualche metro. Le parlai sena vergogna delle ombre lunghe dalle quali mi sentivo inseguito nei miei incubi.Lei ascoltò in silenzio e mi tenne la mano per qualche minuto, mentre ci addentravamo nella boscaglia.

 

Quella sera, leggemmo l’ultimo capitolo di Il corpo, mentre le braci del nostro bivacco improvvisato ancora ardevano. Ci eravamo accampati lontano dal bosco, in una radura dalla quale era visibile in lontananza il Lago Azzurro. Le sue acque erano un suggestivo specchio nero, nel quale qualche stella, che si faceva largo tra le nubi, riusciva a duplicarsi.Leggemmo quasi tutto l’ultimo capitolo, commuovendoci alle battute finali, riflettendo su quei “loro” che in realtà eravamo diventati “noi”, nell’ultimo disperato desiderio di fermare il tempo e rimanere ragazzi. Ci addormentammo così nei sacchi a pelo all’aperto, benché avessimo montato la tenda, incuranti dei pericoli della notte.Virgola mi si accoccolò sulle gambe e notai che Vic si era sdraiata di fianco a Miguel. Forse la bella ragazza dagli shorts bianchi aveva capito che da me non avrebbe ottenuto altro che amicizia ed aveva preferito adeguarsi all’andazzo generale.Voltai gli occhi verso Manuela prima di addormentarmi.Il mio sonno però non durò molto.Mi risvegliai di soprassalto, inseguito dalle ombre lunghe.Cercai di sollevarmi, spaventato per il fatto di non riuscire a capire dove mi trovassi.Una mano mi fermò.Manuela mi disse all’orecchio di fare silenzio, poi mi accarezzò il viso, sussurrando che tutto andava bene.Si sdraiò di fianco a me e poggiò il suo capo sulla mia spalla per tutta la notte.

 

Il mattino seguente, terminammo la lettura de Il corpo, prima di incamminarci.Lo specchio del lago azzurro, questa volta inondato di sole mi fece rimpiangere di non avere scelto il sentiero che Manuela aveva proposto.Salutammo la nostra radura e camminammo senza parlare, con le ultime parole del racconto che rimbalzavano nella mente.Nessuno parlava. Anche noi, come i ragazzi del racconto, sapevamo troppo bene che la nostra avventura era agli sgoccioli e ci saremmo separati di lì a qualche giorno, ma tentammo di nascondere una malinconia strana per l’età, sotto il peso delle nostre battute.- Il solo uomo oltre la collina! – disse Miguel – Sarò io a vedere la Casa delle sorelle matte per primo!- No, sarò io il primo… - risposi stando al gioco.Il grande Jim invece non parlava da tempo.Secondo quanto aveva affermato Miguel, avremmo dovuto raggiungere la vecchia casa nella prima mattinata, ma le ore passavano ed il paesaggio continuava a ripetersi infinito.Il pensiero del padre che lo attendeva a casa per andare alla partita lo tormentava. Il tempo per tornare in orario non sarebbe bastato.- Io torno a casa amici… Ce lo disse poco prima di mezzogiorno.Tentammo di convincerlo, gli dicemmo che sarebbe stato pericoloso fare la strada al contrario nel bosco, con il Dottor Acciaio che poteva nascondersi ovunque nell’oscurità.Ma lui fu irremovibile.Ci abbracciammo come ragazzi diventati uomini e lo vedemmo scomparire dietro una piccola radura del bosco.Jim il Grande, l’amico di un’estate che non dimenticherò mai. Il mio amico Jim il Grande.- Un solo uomo oltre la collina! – gridò per salutarci.Fu l’ultima volta che lo vidi.

 

Pensammo di esserci persi, di avere girato in tondo e chiedemmo ripetutamente a Miguel se fosse sicuro del percorso.A mano a mano che le ore scorrevano, la sua sicurezza sembrava scemare.- La troveremo mai?- Eppure ero sicuro che…A metà pomeriggio, dopo l’ultima curva del sentiero, che avevamo posto come limite estremo, dopo il quale saremmo tornati indietro, il bosco si diradò.- E’ qui! – gridò Miguel – E’ dopo quella collinetta! Riconosco il posto!- Un solo uomo oltre la collina! – gridai a sorpresa. Presi Manuela per mano e corremmo su per la collina ridendo come pazzi – Saremo noi a vederla per prima…!- Ehi, aspettate! – gridò il ragazzo spagnolo – prese Vic per mano e si misero al nostro inseguimento.Ridevo, ridevamo come matti, sentivo Manuela ridere mentre correvamo senza più fiato, col sole in faccia.Credo di aver pensato che se fosse stato un racconto, quello sarebbe stato un bel finale.Scollinammo per primi, felici come due bambini.E finalmente potemmo guardare oltre la collina.

 

Oltre la collina una macchina blu oltrepassa lo svincolo e si avvia per la rotonda.La luce del grande magazzino di utensili illumina le pareti dell’edificio anche se siamo in pieno giorno.Questo dovrebbe essere il posto, dove tanti anni prima io e lei avevamo rivolto il nostro sguardo adolescenziale verso il mistero. E’ stato facile arrivarci, ora bastano cinque minuti dalla nuova strada.Se una casa delle sorelle malvagie è mai esistita, è stata portata via dal tempo, e dalla circonvallazione che ha portato villette attorno al lago azzurro, e attività commerciali dove una volta c’era il bosco.E’ mai esistita quella casa? Riuscimmo a vederla? La visitammo?Non ricordo… Non riesco a ricordare.Speravo di trovare risposte con questa visita, ma il film della mia vita è stato tagliato sul più bello, forse sul momento essenziale affinché essa potesse avere un senso.Da molto tempo pensavo di tornare.Da troppo tempo.

 

Che fine hanno fatto i miei amici? Jim il Grande, Miguel e Vic? Che fine ha fatto il Dottor Acciaio?Che fine hai fatto, Manuela?Cosa fu di noi dopo quella collina?Non ci sono ricordi da frugare, neanche uno sprazzo, come se quel passato non fosse mai esistito.

 

Vecchi volti conosciuti e contorti dagli anni scorrono attraverso i finestrini della macchina, mentre attraverso lentamente il paese. Non sono più tornato dopo l'estate del 1982.C’è un passato in bianco e nero che tutti diamo per scontato sia lontano ed invecchi.Ma quando a invecchiare è il passato a colori, quasi ce ne stupiamo e ci rifiutiamo di accettarlo, rifugiandoci dentro il pensiero che ad invecchiare siano stati gli altri.Ci sono tanti volti invecchiati. Ma nessuno è quello dei miei amici. Le loro case ora hanno altri nomi sui citofoni. Sto cercando dei fantasmi. Forse.

 

Ho ricomprato Stagioni Diverse, gli anni devono essersi portati via quella vecchia copia. Come capita per una canzone, mi piace tentare di riassaporare le stesse sensazioni che mi fece provare quando ero ragazzino, sebbene io sappia che non sarà mai come allora e la sorpresa è diventata nostalgia.Quanto la sapeva lunga King! Quanto poteva essere grande la sensibilità di uno scrittore che afferra l’amicizia nei suoi risvolti più viscerali, fino a farne uscire parole di una bellezza insostenibile.Ho riletto Il corpo in un paio d’ore, appoggiato alla balaustra del Ponte, giù al fiume, che scende dal lontano Lago Azzurro.Non so perché ma quel posto deve essere magico.Mentre leggevo mi sembrava di sentire i loro sguardi addosso.Non erano lì attorno, ma forse li avrei visti riflessi parzialmente riflessi nell’acqua, come le stelle di quella lontana notte nel lago.

 

Sono passato alla vecchia casa prima di andare via.La stanno per demolire, è stato il caso a portarmi qui di fronte.Niente è eterno.Quanto odio questa frase, quanto è vera.Ho insistito perché mi lasciassero entrare, anche solo per cinque minuti.Tutto è spoglio e i muri sono di mattoni vivi ora, persino il parquet è stato rimosso dal pavimento.E’ rimasta soltanto una sedia abbandonata in un angolo.La finestra che domina il pendio è ancora là, però.Quella presso la quale avevo cominciato a leggere Stagioni diverse.C’era qualcos’altro che aveva a che fare con quella finestra…La testa però gira, comincia a perdere lucidità.Tutto si fa stranoTorno a sentire quel suono assordante, dopo tanto, tanto tempo.

Perché hai queste cicatrici sulla mano? Sembrano dei graffi…

Qualcosa non va, la testa vortica, forse è la polvere qui attorno, forse è l’emozione…Apro gli occhi e la stanza è diventata quella del 1982.Sbatto ancora gli occhi. La polvere del presente si sovrappone al livello del passato, che arriva a scariche. Come un video che si sovrappone a un’altro.La stanza sembra viva, va e viene da quello che era a quello che è rimasto. E viceversa.La frugo con gli occhi, rivedo i miei vestiti e le mie magliette.Su di una di colore verde, c’è un uomo in lontananza, sulla cima di una piccola altura. C’è scritto in Inglese The only man beyond the hill.Il solo uomo oltre la collina.La mia mente non collabora ancora.Gli occhi si posano poco distante dalla finestra. C’è un giornaletto appoggiato poco distante. E una copia del Monello. In copertina… c’è Miguel, il mio amico di tanti anni prima.Miguel… Come è possibile? Leggo il titolo, Miguel Bosé sbanca le classifiche con Bravi ragazzi.Miguel… Miguel Bosè… ma cosa…?La stanza del presente si riaffaccia, ma è solo un attimo, la stanza del passato ha la meglio.Dal divano il cane Virgola mi guarda.Non scodinzola, non lo ha mai fatto.Virgola, virgola, con le orecchie a sventola, era il cane d un bambino di città.La musica che fischiettavo ha preso forma.Afferro il cagnolino e ripeto il suo nome, cercando di scuoterlo.E’ tutto inutile. I brividi mi assalgono.Virgola… Virgola…eri solo un peluche.Lampi della stanza presente cercano di farsi largo, ma è ancora il 1982 a prevalere.Apro l’armadio sulla sinistra come un automa, dove custodivo i giocattoli di quando ero piccino.Sulla parte interna dell’anta è appiccicata la locandina di un film.Una ragazzina in shorts bianchi, con una maglietta gialla si china a baciare un ragazzo.E’ Vic, il suo nome mi rimbalza in mente… Vic… Vic…Rabbrividisco, mi si gela il sangue nelle vene.La boum… è la locandina del Tempo delle mele.

 

Vic era una ragazza molto graziosa dal taglio degli occhi leggermente a mandorla, circondati da un caschetto castano, adorava andare sui pattini, indossava shorts bianchi ed una maglietta gialla…

 

Sophie Marceau… si chiamava Vic… nel filmLa mia anima che ancora non vuole vedere la verità si avventa sulla locandina, la strappa via con rabbia e colpisce una scatola nel suo gesto rabbioso. Il contenuto si rovescia a terra.Ci sono vecchie automobiline, soldatini. C’è la scatola Atlantic degli Egiziani, c’è una miniatura che alza un ventaglio verso l’alto…

 Miguel stava intavolando uno strano discorso sul fatto che a Carnevale si fosse travestito da Egiziano per la recita di classe e avesse dovuto alzare ed abbassare un ventaglio per molte ore…

 

Una piccola mano emerge dal mucchio di vecchi giocattoli.Lo raccolgo e lo guardo confuso. E Big Jim, il bambolotto grande e grosso, coraggioso.Big Jim, Jim il grande, Grande Jim.Non voglio credere, non voglio ancora credere…Per terra, accanto a una piccola Lancia Fulvia, con i piccoli pneumatici legati al portabagagli, è rimasto l’uomo pelato.Mi guarda malvagio, mentre lo raccolgo e noto la sua mano d’acciaio.Dr Steel, il Dottor Acciaio. Il nemico di Big Jim.Lo scaravento via, vorrei urlare ma non riesco mentre mi porto le mani alla testa.Fisso la mente stravolta su un quadro appeso a un muro.Non è un quadro, è un puzzle.C’è un vecchio capanno, sulle rive di un Lago Azzurro.Scariche di presente.La stanza del 1982 lentamente perde la sua consistenza di colpo.Ora è di nuovo il Presente.Mi aggiro per la stanza polverosa col cuore impazzito, pensando a lei.Manuela, che fine hai fatto? Chi sei tu? Dove sei? Chi sei realmente?

Manuela era il personaggio più reale che conoscessi…Manuela era il personaggio più reale che conoscessi…

Tremo, ma ancora non capisco, non voglio capire.

 

Sotto la finestra c’è un piccolo scomparto con due ante.Le piccole porte sotto il peso degli anni quasi cedono.E’ lì, è rimasto lì tutti questi anni.C’è una risma di fogli ormai diventati fragili per il tempo.E sopra, la copia di Stagioni diverse.

 

Le pagine sono ingiallite ai bordi, e sembra incredibile che le mie manine di ragazzo si siano potute un giorno agitare avide tra di loro, mentre l’estate si consumava.Lo apro timidamente, lo sfoglio, guardo le prime pagine.C’è una dedica… non ricordavo una dedica…A Mauro, il mio amico più grande. Sperando che un giorno su un libro simile, possa esserci la tua firma.Manuela. La data è quella dell’estate 1982.

 

Il cuore manda impulsi frenetici, la mente non risponde più logicamente. La vista pulsa, rossa di sangue.Manuela? Come è possibile? Allora questo libro non era di Jim il Grande…No, Mauro. Non lo è mai stato – mi rispondo con voce spettrale – Sai bene che Jim il Grande non è mai esistito.Poco a fianco c’è il biglietto per una partita di calcio.C’è scritto Torino-Foggia, Coppa Italia 1982-1983. non è strappato, non è mai stato usato.

 

Poso gli occhi sulla risma intera di fogli. C’è il mio nome sulla copertina.E il titolo: Stand by meNon c’è altro. I fogli sono tutti bianchi.Sotto il titolo c’è una macchia di sangue, scurita da tempo.Una macchia di sangue.Perché hai queste cicatrici sulla mano? Sembrano dei graffi…Mio Dio no….Mio Dio no!Il mio castello di carte crolla.Ricordo di aver pensato che avere fantasia e scrivere un racconto fosse come esserne assorbito e viverne l’esperienza.E quello che ho tentato di nascondere mi avvolge, mentre le mie grida escono mute e scaglio i fogli in aria, che ricadono come gelidi fiocchi di neve dispersi dal vento in questa stanza che turbina di polvere.Niente è peggiore di un urlo disperato, che nasce muto.

 

Tornavamo da una delle nostre passeggiate.Quel giorno era stata una giornata speciale, giù al ponte.- Hai visto che non abbiamo fatto tardi? Ora puoi farti portare alla tua partita...- E’ ancora presto – dissi timidamente – ho ancora una mezz’ora buona…Le sorrisi, sentivo un’energia incredibile, dopo quanto successo al Ponte, appoggiati alla balaustra, poi abbassai lo sguardo sul libro che mi aveva regalato e che era stata la nostra compagnia, quell’estate.Ci salutammo esattamente come avevamo fatto al Ponte.- Vuoi che ti accompagni a casa?- No… non è necessario, farò due passi... - mi sorrise - Ci vediamo domani? Così mi racconti il finale della tua storia? Mi piacciono i tuoi racconti, sai?Non ricordo cosa risposi, qualcosa di molto simile a un sì entusiasta.La vidi andare via, saltellando con la sua andatura sbarazzina.Si voltò, continuando a camminare all’indietro con le mani in tasca.Sapeva che la stavo guardando.- Allora, hai deciso?- Deciso cosa?- Butterai giù le tue idee su carta? Scriverai finalmente qualcosa?- la sua voce si allontanava, doveva urlare per farsi sentire – Hai un talento, sfruttalo…!- Io… non so… non so neanche da che parte cominciare…te l’ho detto… Non so scegliere i nomi…- Comincia dal titolo allora… - rise come se fosse la cosa più naturale del mondo.- Ci proverò… - le dissi alzando la mano in segno di saluto. Feci per voltarmi, ma mi chiamò, sempre camminando al contrario.- Ah… Mauro…Alzai lo sguardo- Ti amo…! – gridò. Scappo via di corsa, correndo e ridendo.Restai sul posto a bocca aperta.Fui tentato di inseguirla e abbracciarla.Ma andava bene così. Quello era il finale perfetto che avrei voluto scrivere nel mio libro. E poi il tempo non era molto. - Anch’io! Le urlai – ma non so se riuscì a sentirmi. Era già lontana.Corsi su per la stradina che portava a casa preda di un euforia cieca. Non mi ero mai sentito così in tutta la mia vita. Quasi non salutai mia madre che mi stava preparando un sandwich, e corsi immediatamente nella stanza. Tirai fuori la risma, la matita e la gomma che avevo acquistato la mattina stessa e mi piazzai di fronte alla finestra, dalla quale dominavo il pendio e vedevo la strada perdersi lungo la valle.La vidi in lontananza, non correva più ed era quasi arrivata a casa, poco prima dell’incrocio del mulino.Lei, la persona che solo tre minuti prima aveva detto di amarmi.Affrontai la risma di fogli con l’energia che usciva dagli occhi.Pensai che sarebbe stata la volta buona, quella nella quale avrei scritto il mio romanzo.- Comincia dal titolo allora – mi aveva detto.Un titolo. Cosa le avrei detto se ne avessi avuto il coraggio? Le sole parole che avrei voluto che il mio cuore dicesse erano “Stammi vicino”.Ma avrei voluto dirlo in modo tale da non farglielo capire subito…La guardai attraverso la finestra, laggiù, lontano e poi scrissi il titolo del mio romanzo.Stand by me.Sono le uniche righe che io abbia mai scritto in tutta la mia vita.Una frenata disperata.E un colpo sordo.Rumore di vetri rotti.Sentii qualcuno urlare.La vidi lontano, sull’asfalto, mentre vedevo gente accorrere dai campi. Un furgoncino poco più in là, fermo contro la cancellata.Dio mio no…! Gridai con la forza del pensiero.Scansai mia madre, accorsa dopo aver sentito il colpo e corsi giù per le scale, giù per la strada, gridando il suo nome, scansando chi mi voleva trattenere, ogni passo enorme, eterno, un rallenty dell’anima.Il furgone nero di Cescu aveva fermato la sua corsa contro la cancellata di una casa.Il ragazzo teneva la testa tra le mani seduto accanto al mezzo e probabilmente non si rendeva conto di quello che aveva combinato, sommerso com’era dall’alcool.Le due vecchie sorelle che abitavano di fronte, entrambe vestite di bianco, le persone più buone che io avessi mai conosciuto, erano scese in strada e piangevano con le mani nei capelli.Furono fotogrammi che ricordai solo in seguito. Respirava ancora, quando arrivai.Fu lei a dirmelo, mentre tremava con un filo di voce. Lei che non sapeva, che non poteva saperlo.Stammi vicinoStammi vicinoConficcò le unghie nella mia mano, mentre ero chino su di lei.- Le ombre lunghe… le ombre lunghe… io… io le vedo! Stammi vicino…– disse in un rantolo, reggendosi alla mia mano, e a questa vita, mentre i suoi occhi nocciola si perdevano nel cielo sopra di lei senza più vedermi.Solo allora compresi che le ombre lunghe… le ombre lunghe erano venute per lei… non per me…Mi portarono via. Mia madre, accorsa, mi afferrò per un braccio e mi portò via, non voleva che la vedessi morire.Gridavo disperato, volevo andare con lei, ma la mia mente fu trafitta da quel suono che stava arrivando e che avevo sempre conosciuto e temuto.Quello dell’ambulanza in arrivo.Soltanto ore dopo, a casa, in stato di shock, mi accorsi che la mia mano sanguinava e che il sangue fosse sceso sull’unico foglio che fossi mai stato in grado di scrivere.La persi così.La persi per una partita.La persi perché non avevo avuto il coraggio di inseguirla per rispondere alle sue parole.La persi perché quello mi era sembrato un bel finale, ma era quello sbagliato.Mi portarono via quella sera stessa.Dimenticai, non ricordo più nulla di quello che accadde, forse la gomma che avevo comprato servì per cancellare i ricordi dalla mia memoria.Soltanto oggi sono tornato.

 

I fogli sono ricaduti a terra, ma la pagina col titolo si è fermata ai miei piedi.Un’altra macchia scura si sta formando appena sotto il titolo.La mia mano sanguina ancora

 

Stammi vicinoL’incrocio del mulino è quello laggiù.Tra qualche giorno questa finestra non esiterà più e con essa una parte della mia vita.Mi rimane una sola cosa da fare.Prima che le ombre lunghe mi raggiungano.Le sento di nuovo, sapete? Ogni giorno di più. Forse questa volta sono per me.Una sola cosa.

 

Ho rimesso in ordine la risma di fogli, con la prima pagina sopra le altre, ho temperato la vecchia matita, mi sono seduto di fronte alla finestra e ho guardato verso l’incrocio del Mulino.Molti anni fa con le mie premonizioni ed una sola frase ho deciso il mio destino e quello di un’altra persona.Forse potrei farlo ancora.Ho scritto sotto il titolo, poco sotto la macchia di sangue.I’ll stand by youIo ti starò vicino

 

C’è un sentiero nel bosco che si divide in due, lo conosco bene e con un po’ di fortuna posso ancora trovarlo. E scegliere un’altra strada.Magari quella che porta in riva al vecchio capanno degli innamorati sul Lago Azzurro.Chissà se lo troverò?Chissà se al fondo di quel sentiero troverò la ragazzina che mi insegnò a leggere e mi disse Ti amo come nessuno mi ha più detto nel corso di tanti anni.Chissà se saranno soltanto parole che si perdono sulla carta, in un racconto su una stagione che non esisterà mai, o se questa volta diventeranno il più bello dei sogni... Mauro Saglietti

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