Durante un'intervista, alla domanda cosa significasse essere del Toro, Emiliano Mondonico rispose che, sicuramente, chi è del Toro non fa parte del gregge. Una frase in grado di riassumere perfettamente il carattere e il granatismo di un personaggio amato da tutto il calcio italiano. Da giocatore trascorse un biennio non certo eccezionale con la maglia granata, iniziato nel 1968. Sulle sue spalle pesava un nome, Gigi Meroni, del quale in molti si aspettavano divenisse l'erede, oltre che per nello spirito ribelle, nello stile e nella capigliatura, anche e soprattutto sul campo. Non fu però la pressione a fregare il Mondo, quanto piuttosto la sua svogliatezza e una non indifferente dose di immaturità: come lui stesso ebbe modo di affermare, si era posto l'obiettivo di giocare in Serie A. Quando vi riuscì, si sentì arrivato.
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“Tutto il Toro del Mondo”, Beppe Gandolfo racconta Emiliano Mondonico
Dovette aspettare trent'anni per tornare a Torino e dimostrare a tutti che lui, il tremendismo granata, quello che non sembrava aver fatto proprio sul finire degli anni 60, in realtà l'aveva nel DNA. Era stato solamente necessario un po' di tempo per crescere, per imparare dai propri errori e capire veramente il calcio e, soprattutto, il Toro. Così, una storia iniziata con un amore non sbocciato si evolve e si trasforma, dando vita all'ultima grande icona di un Torino non solo vincente, ma di una squadra che, al nome, sottintendeva una serie ben precisa di valori andati, dopo il Mondo, sbiandendosi giorno dopo giorno.
Soprattutto per le generazioni nate a cavallo dei 90, Mondonico è, ancor più che l'allenatore dell'ultima Coppa Italia, una sedia che si alza nel cielo di Amsterdam, quasi a protestare con Dio per la sofferenza, i torti e i drammi presentatisi, puntuali, ogni volta che il Toro ha cercato di rialzare la testa da quelle maledette 17.03 del 1949. Pochi secondi che hanno contribuito a trasformare un uomo in leggenda, facendolo entrare di diritto nel pantheon della mitologia granata. Ma dietro a una fotografia passata ai posteri c'è sempre una storia più ampia e, se si parla del Mondo, sarebbe un delitto non raccontarla.
Ed è proprio questo che ha voluto fare Beppe Gandolfo nel suo “Tutto il Toro del Mondo”, presentato ieri sera nel salone di bellezza e acconciatura "Dai Granata" (una sorta di museo che ogni tifoso granata dovrebbe visitare). Un libro, ammette Gandolfo, che "mi è costato molta sofferenza, perché doveva uscire il 29 settembre 2018, a 50 anni esatti dall'esordio con la maglia granata di Emiliano Mondonico". Come scrive nella prefazione, quando incominciò a collaborare con il Mondo per la sua stesura "il cielo era sereno, seppur con qualche nuvola. Invece è arrivato il temporale. Devastante". "Tutto il Toro del Mondo" non è, però una commemorazione, tutt'altro: è la celebrazione di una doppia storia, quella di un Torino che fece sognare e di un ragazzo ribelle e indisciplinato che seppe crescere e trasformarsi in un allenatore apprezzato e rispettato, ma soprattutto in un uomo vero e genuino. L'ultimo, forse, in grado di fare breccia nei cuori del popolo
granata.
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