mondo granata

Vent’anni

Redazione Toro News
di Marco Peroni

Ti portavo spesso a vedere il posto dove i Campioni se ne erano andati.Salivamo sul colle di sabato sera, la prima volta lo avevamo fatto per guardare le luci della città, per poi stare abbracciati su di una panchina del piazzale, come facevano tutti gli innamorati.Quanta emozione poter guidare la macchina per poche ore, col terrore di farle anche solo il minimo graffio! Che batticuore quando sotto casa tua aspettavo di vederti uscire dal portone. Come sarai vestita questa sera? Avrai la mia stessa voglia di vederti?Che senso di libertà poter decidere dove andare e cosa fare, il mondo che esplodeva nell’abitacolo mentre ti stringevo la mano.La Basilica ci guardava dall’alto, nitida per il vento.- Andiamo a fare un giro su? Mi rispondesti con uno dei tuoi sorrisi disarmanti e col calore della mano.Respirai la vita, percorrendo Corso Belgio. Sapevo già che dopo il colle saremmo andati a casa mia. Quasi avvertissi che tutto potesse sfuggirmi dalle mani, assaporai quell’attimo di eterno presente.Era tutto così bello e perfetto. Avevo vent’anni. Non potevo volere di più, non potevo desiderare di più.

Arrivammo in cima mentre stava imbrunendo. La Basilica gettava lunghe ombre attorno a sé. La stradina che portava ai Campioni era già buia, te la indicai con la mano, mentre il vento caldo di quella primavera rischiava di portarti via la borsa.Conoscevi già la storia dell’aeroplano, di quello che era successo là dietro, ma non sapevi né quando fosse capitato, né chi fossero quei ragazzi che avevano perso la loro gioventù lì tanti anni prima.Ti raccontai la loro storia su quella panchina, tra un bacio e l’altro, mentre tu ascoltavi ammirata e stupita della passione che mettevo nel raccontarti i particolari.E ci sembrava impossibile che una disgrazia simile potesse essere successa proprio lì, dove stavamo vivendo il nostro amore.

Ti conoscevo da tre settimane ma ti osservavo da mesi entrare nella classe vicino alla mia. Mi piacevano i tuoi capelli mossi, i sorrisi che elargivi a tutti, la tua semplicità. Anche tu mi guardavi, ma potevo mai essere sicuro solo del tuo sguardo?Quando ti ho conosciuto, mi sono intrufolato con la faccia da gaglioffo in un discorso a tre: tu, una tua compagna ed un mio amico, ricordi?Ho pensato: “Ora o mai più, questa è l’occasione”.E’ stata la prima volta che ti ho parlato.Cosa dire? Come comportarsi? Eri così bella e simpatica che non mi sembravi neanche vera.Chissà se ricordi ancora quando ti presi per mano la prima volta? Ed il primo bacio, alla fermata dell’autobus? Era il tre di maggio e fu la cosa più naturale del mondo perdere il pullman per starti abbracciato.

La volta seguente che salimmo al colle le giornate si erano allungate ed approfittai di quella luce per portarti da loro, dove non eri mai stata. I nostri passi sembravano attutiti in quel luogo pieno di silenzi. Le persone attorno a noi parlavano sottovoce per non disturbare, quasi fossimo in un luogo sacro.- L’aereo è caduto là? – mi chiedesti indicando la parte superiore della Basilica, che sembra diroccata.- No, è stato qui davanti... – e ti indicai la lapide, dove l’apparecchio si era schiantato.Ascoltasti tutta la storia ancora una volta, chiedendomi nel dettaglio come fosse stato possibile. Ed io a raccontarti una storia voluta dal destino, di un giorno pieno di nubi e pioggia, di come probabilmente il pilota a Villanova d’Asti avesse intravisto la basilica ed avesse seguito quella via, poco prima che le nubi si richiudessero.No, ti spiegavo, il pilota non aveva potuto fare niente; forse solo negli eterni istanti che avevano preceduto l’impatto si era accorto delle cime degli alberi sotto di lui ed aveva tentato una cabrata.L’aereo doveva avere toccato dapprima con l’ala il terrapieno ed una frazione di secondo più tardi si era schiantato all’altezza della lapide.Osservasti silenziosa e stupita, alzando gli occhi verso quei nomi prima di allora sconosciuti. Bacigalupo, Ballarin, Maroso… Arrivata a Mazzola sobbalzasti.Ti guardai di profilo senza che tu te ne accorgessi, prima di riprenderti per mano, facendo il giro della Basilica e riportarti verso la macchina.E poi giù seguendo il profilo della collina, ogni metro dolcemente più vicini a casa mia, dove saremmo stati insieme.Avevo vent’anni. Non potevo volere di più, non potevo desiderare di più.

La sera prima della tua partenza per il mare non parlammo, abbracciati sulla nostra panchina con la Basilica sullo sfondo, in uno di quei momenti unici in cui era la vita a far da colonna sonora a se stessa.Mi chiedesti di raccontarti ancora una volta la storia di quel volo e di quei ragazzi, perché sapevi che ti avrei raccontato quella storia tutte le volte che avresti voluto, perché sapevi che era parte di me.Quando lasciammo la panchina e facemmo per avviarci verso la macchina, mi stringesti e scoppiasti a piangere.Ti tenni stretta più che potevo senza parlare, assaporando quegli attimi. Soltanto pochi giorni e poi ci saremmo rivisti Ero sicuro che ti avrei riportato su quella panchina e ti avrei regalato tutta la mia vita e la gioia dei miei vent’anni. Chi poteva volere di più? Chi poteva desiderare di più? La sera in cui ti ho perso sono salito al colle con la macchina come un pazzo e sono corso tra le lacrime fino alla lapide, quasi potessi pensare di ritrovarti, quasi mi illudessi che la vita e le sensazioni che avevamo provato potessero essersi fermate in quel punto.Ma tu non c’eri. Le mura della Basilica guardavano fredde e silenziose i miei singhiozzi increduli, mentre l’oscurità avanzava velocemente, ad indicare che quell’estate stava cominciando a svanire troppo in fretta.E proprio in quel luogo, dove tanti anni prima la vita e la gioventù se ne erano andate in un istante, io, come per un tributo, capii di dover consegnare ai Campioni i miei giorni felici.Così mentre le foglie tutto intorno si agitavano per un’inattesa folata d’aria fredda ed una lama di dolore sconosciuto si faceva largo dentro di me, mi accorsi che anche i miei vent’anni, in quell’interminabile ed inaspettato soffio di vento, se ne erano andati.