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Vittorio Pozzo. Un nome che ha giganteggiato sul calcio italiano per almeno cinquant'anni. Giocatore, allenatore, giornalista, per tutti Pozzo è il commissario unico della Nazionale due volte campione del mondo: un uomo di mezz'età, dai capelli bianchi, in posa con la squadra e la coppa Rimet in mano in una vecchia foto degli anni '30. Uomo della Nazionale, della Federazione e cuore granata: Vittorio Pozzo s'innamorò del calcio a Torino (al liceo Cavour) e crebbe insieme al Torino, sia come calciatore sia, soprattutto, come allenatore. Nato a Torino in corso San Martino il 2 Marzo 1886, Pozzo non attese l'età adulta per prendere a calci una palla: già da ragazzino, durante una partita al giardino della Cittadella, venne notato dai fratelli de Fernex (altri futuri granata) e tesserato dall'F. C. Torinese. Il calcio lo colpì come un virus, una febbre che lo seguiva ovunque andasse: partito in Svizzera per approfondire gli studi e le lingue, Pozzo seguì i campionati locali si dice anche giocando nelle file del Grasshoppher. Avvisato dal capoluogo piemontese della nascita del Toro nel dicembre 1906, aderì immediatamente alla nuova squadra, anche se poté vestirne la maglia solo al suo rientro in Italia nel 1908. Ripartito tre anni dopo peregrinò per l'Europa fino a giungere in Inghilterra: lì, nella terra del football, il giovane piemontese s'innamorò del calcio dei maestri. Rincasato a Torino con l'idea di tornare quanto prima oltremanica (talmente convinto da tenere in tasca il biglietto di ritorno che mai utilizzato divenne più tardi il suo portafortuna) nel 1912 divenne invece il primo allenatore del Toro, il solo, per un decennio. Fu la guerra a cambiare per sempre la vita di Vittorio Pozzo. In mezzo al dramma di un'intera generazione sacrificata in trincea Pozzo, trentenne, cosmopolita e grande conoscitore di capitali europee (oltre aver viaggiato molto conosceva ufficialmente sette lingue ufficiosamente dieci) divenne capitano degli alpini. E alpino rimase tutta la vita. Smobilitato a fine guerra, infatti, rimase sempre un soldato in congedo, travestito da elegante borghese. Nacque così il suo mito, quello del patriarca, temuto, amato e ammirato, terribile e misericordioso. Vittorio Pozzo l'allenatore che teneva discorsi patriottici negli spogliatoi, che faceva cantare ai calciatori i cori degli alpini, che considerava la maglia azzurra come un onore supremo. Vittorio Pozzo il manager che controllava la posta dei calciatori, decidendo cosa consegnare o no, che chiudeva le squadre in ritiro occupandosi di tutto (dai luoghi, ai pasti, all'assegnazione delle camere) trattando i giocatori con benevolo paternalismo. Vittorio Pozzo l'uomo della Federazione, sia che si trattasse di dirigerne la Nazionale (venne chiamato per ben quattro volte: nel '12, nel '21, nel '24 e '29) sia che dovesse dirimerne le lotte intestine (elaborando nel '21 un compromesso per modificare il campionato: da una serie di gironi regionali, quale era allora, a qualcosa di molto simile alla Serie A attuale). Vittorio Pozzo il commissario unico, il primo a dirigere da solo la Nazionale: una sola voce, una sola volontà, un solo punto di riferimento. Vittorio Pozzo il commendatore: quasi un gerarca durante il ventennio, creatore di squadre vincenti (le coppe del mondo del '34, del '38 e l'oro olimpico del '36) e forse mai davvero fascista di sicuro, sì, un vero conservatore, un piemontese dell'ottocento, di quelli che avevano fatto l'Italia. Vittorio Pozzo l'uomo che non chiese mai un soldo per allenare gli azzurri, per non doversi mai comportare da dipendente verso nessuno, che scrisse come corrispondente sportivo della Stampa fino ai suoi ultimissimi giorni di vita conservando, nella sua casa in via Roma, un numero incredibile di ricordi e giornali. In mezzo a tutto questo il Toro. Prima come allenatore, dal 1912 al 4 aprile del 1922: 105 panchine in campionato con 59 vittorie. Qui impartì ordini a leggende granata come i fratelli Mosso, Bollinger e Bachmann, terminando ogni stagione con piazzamenti tali da far entrare il Toro nel novero delle squadre che contano. Nel campionato 1914-15 (campionato interrotto alla penultima giornata a causa dell'entrata in guerra dell'esercito italiano) sfiorò il titolo portando il Toro al secondo posto a sole due lunghezze dal Genoa campione. Anni dopo selezionò i giocatori del Toro in Nazionale, vestendo d'azzurro (tra gli altri) i vari Libonatti, Balonceri e Janni, consigliando ai calciatori delle nazionali giovanili di giocare con la maglia granata, per essere più vicini all'occhio del CT. Riuscì a far scendere in campo, proprio a Torino l'11 maggio 1947, dieci granata nell'undici titolare. Era la squadra pluricampione d'Italia, quella che adottando il sistema aveva mandato in pensione tutto il credo tattico del vecchio CT, quella che Pozzo, straziato e tra le lacrime, dovette riconoscere (per espressa richiesta delle autorità) tra le lamiere accartocciate dell'aereo nel tardo pomeriggio di quel tragico 4 maggio 1949. Il vecchio CT morì il 21 dicembre 1968, anno in cui il mondo cambiò di nuovo. Negli ultimi fotogrammi che abbiamo di lui un'apparizione televisiva di una decina di mesi prima della morte lo vediamo come un uomo di altri tempi, un vecchio curvo e rugoso ma dallo sguardo vivo e dalla lucidità ammirevole, la stessa che gli permise negli ultimi anni di non essere un monumento ambulante ma un vero giornalista, raccontando partite fino ai suoi ultimi giorni. Roberto Voigt
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