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Il Toro a Roma, per sognare e ricordare

Redazione Toro News
Guida ai granata in trasferta / Nella città eterna, ammaliante e sfuggente

Roma. Città eterna, ammaliante e sfuggente, città di sogno e di incubo. Per descriverla si dovrebbero ripetere le parole che Marcello, nella Dolce Vitadi Fellini, sussurra all'orecchio di Silvia, avvinghiati in un ballo lento sulle note di “Arrivederci Roma”; «sei tutto, Silvia! Ma lo sai che sei tutto? Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione, sei la madre, la sorella, l'amante, l'amica, l'angelo, il diavolo, la terra, la casa. Ecco che cosa sei: la casa». Può sembrare un incipit eccessivamente retorico ma spiegare Roma è veramente impossibile senza ricorrere all'arte o alla poesia, perché nessun'altra città – escludendo forse Parigi – incastona in ogni sua singola parte un così alto numero di sogni e di storie. Qualcuno ha detto che Roma è stata capace di fermare il tempo, di rendersi eterna; in realtà a Roma accade molto di più: nella Capitale tutti i tempi della Storia scorrono insieme, contemporaneamente, intrecciandosi in un solo tessuto indescrivibile, come in un caleidoscopio. 

Così la passeggiata a Roma resta qualcosa di veramente unico, un'esperienza che ci accomuna a migliaia di pellegrini e di turisti che da secoli percorrono le stesse vie, gli stessi passi per fermarsi ad ammirare le stesse cose che eternamente stupiscono e affascinano. Eppure la Capitale non è solo questo, non è solo un museo. È un enorme mosaico, una sintesi del nostro Paese, nel bene e nel male. Così alle chiese, ai monumenti e ai musei si aggiungono le file senza fine di turisti (alcuni pronti a essere fregati da qualche furbacchione), quelle altrettanto interminabili delle macchine in coda per le vie della città, delle borgate o del raccordo; file di persone sfibrate in coda agli sportelli, non troppo distanti dai palazzi del potere, dai ministeri e dalle sedi centrali dei colossi aziendali. Così Roma, come si scriveva all'inizio, da sogno può diventare incubo: dalla vetrina d'Italia alla sua cattiva coscienza il passo è brevissimo. E a loro volta anche queste ombre non riescono ad esaurire quanto può essere Roma.

Accanto al sacro dell'Urbe, infatti, è da sempre mescolato il profano, abbastanza verace da poter bilanciare l'eterea bellezza della città: così Roma è anche la statua di Pasquino, dove nei secoli si sono scritte rime scanzonate contro i potenti della città, è un dialetto tra i più noti d'Italia ed è un insieme di tradizioni e di personaggi talmente importanti da creare una delle culture popolari più importanti del Paese. E in questa cultura popolare grande peso è dato al calcio, che esplode quotidianamente in città attraverso televisioni e radio locali.

Questo il contesto in cui nasce cresce e tutt'ora vive la Roma, una delle squadre più popolari d'Italia, legata indissolubilmente alla città di cui porta il nome e ai tifosi che l'accompagnano con una passione assolutamente singolare. Nata da una fusione nel 1927, la Roma compie i suoi primi passi nel campo del Testaccio, un luogo destinato a caratterizzare fortemente la squadra e il suo tifo. Quartiere operario e difficile, dove alle botteghe più umili e ai macelli si alternavano fraschette e osterie, la Roma divenne qui squadra “popolare” (contrapposta ai tifosi pariolini e benestanti della Lazio), un connotato che non avrebbe mai abbandonato. Era la Roma di Attilio Ferraris, vera e propria icona giallorossa: fuoriclasse in campo ed esuberante fuori, Ferraris IV (com'era conosciuto) rischiò di bruciarsi la carriera ai tavoli verdi dei giochi d'azzardo e nella mondanità; venne salvato da Vittorio Pozzo che in cambio della promessa di smettere di fumare e di bere gli consegnò un posto nella squadra campione del mondo 1934.

Motore e cervello di quella Roma “testaccina” fu Fulvio Bernardini, laureato in scienze economiche (cosa rara per un calciatore di allora) cui la maglia della nazionale fu invece vietata per motivi di “spogliatoio”: troppo più bravo Bernardini dei suoi compagni in azzurro, che rischiavano così di rimanerne in soggezione e di perdere morale (questo, perlomeno, fu quanto gli spiegò Pozzo). Contro la sua Roma fu avversario tenace il Torino degli anni '30, quello di Bo, Ellena e Allasio, che contro i giallorossi sfoderarono alcune prestazioni indimenticabili (nel bene e nel male).

Anche il Grande Torino si impresse nella memoria della Roma. Il primo scudetto del ciclo granata fu infatti strappato ai giallorossi campioni in carica, sconfitti quell'anno anche in semifinale di coppa Italia. I pentacampioni granata inflissero ai giallorossi anche un memorabile 0-7 nella stagione 1945-46, con sei gol realizzati nei primi venti minuti di gara. Altrettanto indimenticabile, nell'epopea del Grande Torino, un 1-7 nella stagione 1947-48. Qui i granata andarono al riposo sotto di una rete, siglata da Amadei al trentatreesimo. Il Toro si risvegliò solamente a metà del secondo tempo, pareggiando i conti con Mazzola al sessantesimo. I tifosi giallorossi, che dagli spalti pregustavano già il sapore di quei tre punti storici, dovettero invece assistere a una delle rimonte più incredibili della storia del calcio: due minuti dopo il capitano, Castigliano rovesciava il risultato dando inizio a uno show senza precedenti.

Più vicina nel tempo è invece la doppietta di Silenzi nella finale romana di Coppa Italia 1992-93: in quella partita il Torino diede grande prova di volontà, dimostrandosi più forte degli attacchi giallorossi –  e dei tre rigori fischiati contro. La trasferta di Roma, insomma, non è mai ordinaria amministrazione