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Il selfie che Andrea manda per Le Loro storie e tutti i tifosi granata.
Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
A Monza lo chiamavano Gasba-dona in onore di quel "Pibe de oro" per cui tifava da bambino, negli anni in cui o si era del Milan cannibale o del Napoli guidato dal piccolo extraterrestre. Incostante, talentuoso, solista, eterna promessa. Di definizioni per Andrea Gasbarroni se ne sono sprecate tante. Dalla sua voce, finalmente, ne trapela un'altra, forse la più onesta: sereno.
A Torino non mi sono incazzato. La società fece le sue valutazioni e scelse in un certo modo. Io ho accettato senza problemi di farmi un anno fuori rosa, ma dico sul serio. Mi consolavo con Tonino (Asta, ndr) andando a giocare in Primavera. Lui era contento, io giocavo la domenica, vincevamo sempre, mi divertivo, non la passavo mai…
Chi dribbla ha talento e al giorno d’oggi in Serie A non dribbla più nessuno. Non conta quanto sei alto, la gente va allo stadio per vedere i calciatori dribblare, guardi Messi e rimani senza parole, pensi “io ci sto a fare?”. A me piace quella roba lì, perché alla fine cos’è che ti fa fare “oooohh”? Un bel dribbling. Ora mi fa impazzire Mertens, del Toro Iago Falque, lo vedi che ci prova sempre a saltare l’uomo. Gli altri sono tutti atleti, fisicati, delle bestie. Tanto di cappello, ma per come vedo io il calcio, uno deve dribblare.
Da bambino giocavo sotto casa dei miei genitori in corso Belgio, nei campetti o all’oratorio. Tifavo Napoli perché c’era Maradona, mi mettevo la sua maglia, quella con lo sponsor Buitoni sul davanti, ma tarocca. Lui e Zola rimangono i miei due idoli, due marziani. Per me quello è il calcio, la penso come Giampaolo, da anni uno degli allenatori più bravi in circolazione. In un’intervista diceva che “il talento lo trovi in mezzo alla strada, sono quei ragazzini senza maglietta”. Ed è così, per me lo è sempre stato, anche quando giocavo in Serie A. Non mi è mai piaciuto apparire, non ho amato l’esasperazione di un mondo in cui vengono meno certi valori, la genuinità delle persone. Mi ritengo fortunato per essere riuscito a tramutare la mia passione nel mio lavoro e se dovessi rinascere giocherei di nuovo a calcio, perché svegliarsi la domenica e andare a giocare a pallone per me resta la cosa più bella del mondo. Io sono così e mi trovo bene per come sono fatto, pane e salame.
Ancora oggi vado al bar e trovo qualcuno che mi dice “certo che col tuo talento potevi fare molto di più”. Potevo fare di più? Boh, forse. Forse sì, sicuramente sì. Ed è tutta colpa mia, non trovo facili scuse perché alla fine, a meno di aver avuto infortuni gravissimi, ciò che ognuno fa di buono o meno buono dipende solo da se stesso. Io ero discontinuo, è vero, ma, concedetemelo, giocavo nel campionato più difficile d’Europa a quei tempi e ci sono rimasto un po’ di anni. Ero giovane, capivo poco certe dinamiche, non accettavo le imposizioni. Ad esempio, se in trasferta l’allenatore schierava una formazione prudente per difendersi e capitava che io entrassi nella ripresa, io facevo a modo mio. La giocata io l’ho sempre provata, non me ne fregava nulla della tattica, se no che giocavo a fare? Avrei dovuto essere maturo come alcuni miei compagni dell’Under 21, vedi Moretti, Chiellini, Pirlo, Gilardino, invece sono maturato più tardi. Nel calcio, però, ti sembra di essere sempre giovane, poi passano 4 o 5 stagioni, sei meno giovane, poi giovane non lo sei più e il treno è passato. Io comunque sono contento di quello che ho fatto, ho giocato in squadre importanti, ho presenze in Coppa Uefa. Non ho nessun rimpianto, anche se non ho fatto quel salto definitivo.
Vi racconto un episodio. Ero al Parma, alla fine di una partita contro la Roma io ero all’anti-doping. Passa Spalletti, si avvicina e mi dice “ogni volta che gioco contro di te, tu sei il migliore in campo. Però ogni anno ti ritrovo sempre in queste squadre qua. Tu hai qualcosa dentro che devi capire e risolvere perché chiunque ti veda in campo anche solo una volta pensa ‘questo non può non giocare a livelli superiori’”. Aveva centrato il punto. Le sue parole mi fecero riflettere, ma, sicuramente per colpa mia, non sono mai riuscito a superare quell’ultimo step, sono rimasto il ragazzo col talento mai sfruttato a pieno. Avevo i piedi da calciatore professionista e la testa del ragazzino che gioca tra i palazzi di Vanchiglietta. A volte, in realtà, questa ingenuità è stata anche la mia forza. Dobbiamo giocare a San Siro? Ok, andiamo a San Siro, che problema c’è? Non ho mai sentito la pressione. Per carità, che pressione vuoi che ci sia nel giocare a pallone? Non per retorica, ma le preoccupazioni vere sono altre, sono quelle di chi deve operare un paziente a cuore aperto, non le nostre.
Mi è capitato tante volte di cambiare squadra a gennaio: spesso la motivazione era quella di voler tornare alla Sampdoria. Avevo proprio un debole, lì stavo benissimo. Anche a Palermo, Parma e Torino, nonostante tutto, ma la squadra (perché intendo proprio i compagni) che più mi porto dentro è la Samp. La gente mi voleva bene e anche quando, anni dopo, sono finito al Genoa, continuavo a vedermi con i pochi rimasti della “mia” prima Samp: Palombo, Accardi, Volpi. Purtroppo la Samp non mi ha mai riscattato, ecco, questo mi dispiace perché io ci ho sempre tenuto tanto. Del fatto che Genoa e Torino non avessero messo nulla nelle buste, invece, mi sono ricordato ora, figuratevi quanto peso ci avevo dato allora. La cosa non mi aveva neanche sfiorato, tanto avevo tre anni di contratto sia da una parte che dall’altra, a me interessava solo continuare a giocare.
Non voglio che pensiate che mi sia tutto caduto dall’alto. Giocare in A è stato un sogno realizzato, ma in mezzo ci sono stati tanti sacrifici, rinunce, allenamenti. Non arrivi lassù per caso, c’è stato un percorso conquistato con molta ambizione. Forse oggi ne parlo così serenamente perché comunque ci sono arrivato, altrimenti il rimpianto lo avrei. Ovvio, se mi chiedete se mi sarebbe piaciuto vincere la Champions, rispondo sì, ma con i se e con i ma non si va da nessuna parte. Analizzando la mia carriera, sono felicissimo e di smettere non ci penso proprio. Ho ancora voglia di scendere in campo. Piani B non ne ho, ho frequentato il corso di primo livello a Coverciano, ma da quello a diventare allenatore la strada è lunga. Al momento gioco (al Brà, Serie D, ndr), mi piace troppo e faccio fatica a pensare di dire basta. Vorrebbe dire non giocare più… mizzica. Ancora non sono pronto, perché nulla ti dà le stesse emozioni del pallone. Anche Guardiola, ne sono convinto, si divertiva più in campo che fuori.
Se mi proponessero di andare in Serie A oggi, mi metterei a ridere. Ma dove vado? Quelli mi sbranano, sono atleti perfetti. In B forse, ma bisogna essere in una condizione fisica perfetta. In C ci potrei stare ancora, mezz’ora alla fine, una partita intera ogni tanto.
Ho due bambine di due e sei anni. Sono piccoline, ma in effetti non ho mai parlato loro della mia carriera. La grande ha scoperto che ero ad alti livelli da sei mesi, forse meno. Qualcuno a scuola le ha detto che sono stato al Torino, lei è venuta a chiedermelo. “Sì”, ho risposto. È finita lì. D’altronde è una femminuccia, per cui è più interessata alla danza, ai saggi…
Ogni tanto penso che, se tornassi indietro nel tempo, con la testa dell’Andrea di oggi forse le cose andrebbero diversamente. Poi mi rispondo di no, perché non avrei più quella sfrontatezza. Quella che mi è sempre stata d’aiuto per dribblare.
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