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Le Loro storie, Lys Gomis: “Ho fatto pace col cervello, ora sono libero di tifare Toro”

Marco Parella

Esclusiva / In fuga sia nel derby che dalla Spal (dove ora gioca il fratello Alfred), poi le tante promesse del Torino: "Comi mi ha salvato"

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Primo di una dinastia di portieri in granata, ma quanto è difficile essere profeti in patria. Le "baggianate" giovanili, come le chiama lui, le fughe, i ritorni, la depressione e qualche amico speciale. Lys Gomis e il suo viaggio nel concetto base per un numero 1: la fiducia.

"Adesso ho fatto pace col mio cervello, non sono più il Balotelli dei portieri. Una volta a mezzanotte, mi venne l’idea di spruzzare Ogbonna con un estintore. Eravamo in convitto, non sapevo bene come funzionava quell’affare e tutta la polvere uscì dall’albergo e invase il ristorante che c’era di fronte. Era pieno di gente e il proprietario dovette mandare via tutti. Non era incazzato, di più. Venne fuori con un coltello, urlando “Io ti ammazzo, ti ammazzo!”. Quando arrivò Comi per scovare il responsabile confessai subito.

"Per me Antonio è stato un secondo padre nel mondo del calcio. Senza di lui, probabilmente avrei smesso di giocare molto tempo fa. Dopo il derby Primavera ero devastato. Andarmene fu una bambinata, ora lo riconosco, quel giorno i criceti nel cervello si bloccarono. Però su quell’episodio tutti i giornali montarono un castello senza senso. All’improvviso tutto ciò che di buono avevo fatto venne cancellato. Avevo vinto uno scudetto con la Berretti, avevo vinto il premio come Miglior Giocatore al Viareggio, una cosa talmente rara per un portiere che solo Buffon l’aveva ottenuto prima di me. Ma continuavo a essere ricordato solo per quella fuga nel derby e quando l’estate successiva decisi di interrompere il ritiro estivo con la Spal, vennero fuori le cose più assurde. Lessi che ero scappato nella notte, quando sarebbe bastata una telefonata a me o alla Spal per sapere che la realtà era un’altra. Nessuno si prese la briga di controllare, è facile mirare dove sparano tutti.

"Il Torino ha sempre creduto in me. Mi dissero che nelle giovanili avevo fatto bene, per cui era inutile stare un altro anno in Primavera. “Vai a confrontarti con un campionato senior e il prossimo anno rientri qui”. Scelsi la Spal che voleva puntare su di me, ma non stavo bene a livello personale. Ero debole e volevo tornare dalla mia famiglia per cui ne parlai con la società e loro capirono. Fu il direttore generale, Gianbortolo Pozzi, a riportarmi a casa in auto. Mi sentivo come un cane bastonato, nessuno dei due aprì bocca per tutto il viaggio, poi, quando arrivammo, io scesi e gli chiesi scusa. E se lo incontrassi oggi gli chiederei di nuovo scusa, a lui come ai tifosi, perché loro avevano fiducia in me e io l’ho tradita.

Se ci ripenso oggi quella fu una baggianata notevole, anche se quello, col senno di poi, fu un momento di crescita, uno spartiacque: “Lys, se vuoi fare il calciatore devi cambiare”, mi ripromisi.

"Fiducia. Tornato a Torino non ne avevo più, ero distrutto. Passavo le notti a piangere e in campo non rendevo perché avevo paura dell’opinione della gente. Temevo le battutine, ero ossessionato anche solo dal non fare tardi ad allenamento. Il derby, la Spal. Chiunque sbaglia, soprattutto a 18 anni, ma con me si erano dimostrati tutti professori, invece. Ci ho messo tre o quattro mesi a riprendermi, fino a quando Scienza (allora allenatore della Primavera del Torino, ndr) mi diede la fascia di capitano per responsabilizzarmi. Matteo Sereni, uno all’apparenza rude, ma dentro un buono, mi scriveva tutti i giorni per tenermi su di morale, Jimmy Fontana sdrammatizzava sempre nel suo stile: “Madonna se sei scarso. Mai visto un portiere nero, dai…”. Ecco, se ripenso ai miei anni al Toro, non mi pento di nulla perché mi hanno dato la possibilità di conoscere persone eccezionali come loro. Jimmy era un mio compagno, è diventato il mio procuratore e a giugno sarà il mio testimone di nozze. Suciu è il mio migliore amico. E poi Comi, fortuna che c’era Comi. L’anno dopo andai al Foggia di Zeman carico come una molla e mi spaccai il ginocchio. Non vedevo la fine di quel tunnel e Comi mi prese con le pinze. Non con grandi proclami, ma con gesti semplici. Mandava sempre me alle cene dei Toro club, un modo per farmi sentire importante, amato. Dopo l’infortunio di Foggia, per dimostrare che con me non si era sbagliato, mi riportò a Torino per curarmi e quando mi fui ristabilito, lui e Petrachi chiamarono il Casale per darmi un’altra chance. La sfruttai bene e al mio ritorno mi vollero tenere in granata.

"La fiducia per un portiere è qualcosa di molto volubile. In se stessi, nei compagni, da parte della società, dei tifosi o dell’allenatore. Al Torino l’ho sempre sentita. Mi ricorderò per sempre il primo giorno di Ventura. L’allenatore dei portieri venne a dirmi che il mister voleva vedermi. “Ahi, chissà che ho combinato”, mormorai tra me e me. “Tu sei un portiere forte – invece mi sorprese lui – e io ti reputo da Serie A. Quest’anno non giocherai (c’erano Coppola e Morello), ma ti prometto che appena veniamo promossi, io prenderò un portiere e tu sarai il suo secondo”. Non ci credevo molto sul momento. “Non mi fa giocare in B e vuole portarmi in A”, era il pensiero che mi ronzava in testa. L’estate successiva, però, il Toro prese Gillet e Ventura tenne me come secondo e Alfred terzo. Fu di parola, ma io ero giovane e impaziente e volevo andare ad Ascoli in B. Supplicavo Cairo, ricordo di avergli telefonato piangendo, chiedendogli “mandami a giocare, ti prego”. La domenica successiva il presidente venne a salutarmi in campo e mi confessò che non poteva perché Ventura voleva tenermi a Torino a tutti i costi. Ad Ascoli mi trasferii poi a gennaio, giocai poco e mi infortunai. Quando rientrai a Torino la stagione seguente, avevano già preso Padelli. Aveva ragione mio padre, avrei dovuto pazientare un po’. L’errore comunque è stato mio. Il Torino aveva un progetto su di me e sono stato io a non volerlo rispettare. Dico grazie a Cairo per la stima nei miei confronti, d’altronde non è scontato che mi rinnovasse il contratto pur non giocando mai…

"Ho ben impresso il momento del distacco definitivo dal Toro. Dopo la stagione in prestito al Trapani in cui avevo fatto molto bene, arrivai in ritiro (estate 2015, ndr) con la voglia di vedere se potevo ancora starci in quel gruppo. Ero motivato. Pochi giorni più tardi il Torino richiamò Ichazo. In spogliatoio guardai Daniele (Padelli, ndr): “Per me è finita qui, questo arrivo mi sa di bocciatura”. Non sono andato via col veleno, anzi, ringrazio chi mi ha permesso di diventare un giocatore di Serie A. Ma a quel punto era un mio desiderio staccarmi dal Toro, perché fondamentalmente ero più legato con il cuore che a livello professionale. Era l’ennesima volta in cui arrivavo sul punto di fare il salto di qualità, ma non mi era permesso perché venivo visto come il ragazzo che arriva dalle giovanili, non come un potenziale titolare. Rimpianti a parte, fin dal primo ritiro da aggregato alla prima squadra ho avuto davanti a me portieri forti sul serio. Quand’ero ancora ragazzino c’era Abbiati, poi è arrivato Sereni, uno dei migliori nel ruolo che io abbia mai visto. Dopo sono stato compagno di Gillet, forte forte, umile e uomo spogliatoio sempre pronto allo scherzo, e Padelli, ragazzo stupendo e gran professionista. Nelle squadre in cui sono stato ha sempre giocato chi se lo meritava davvero, non ho mai pensato il contrario, tranne forse al Frosinone dove non mi sentivo inferiore agli altri portieri. Ne parlai con Stellone, convenimmo che rimanere lì fosse uno spreco e provai altre strade, grato della fiducia concessami.

"Mio fratello Alfred ha seguito un percorso diverso. È andato a giocare altrove fin da giovane, per fare esperienza. È un ragazzo molto riflessivo e avrebbe voluto giocarsi le proprie carte al Toro perché, come me, è cresciuto con quella maglia e il sogno ti rimane dentro. Ma il suo ragionamento è sempre stato quello di giocare con continuità per capire se, un giorno, sarebbe stato pronto per la A. Con Mihajlovic doveva essere titolare. Quando glielo comunicarono era felicissimo, poi non fu così. Forse lo hanno riportato in granata troppo presto, forse lui non era pronto mentalmente. Non so. Sono scelte dell’allenatore, che sapeva quali sarebbero state le conseguenze delle sue azioni. Alfred si è adeguato e ha fatto le sue valutazioni. Non voleva altri prestiti, cercava una società che potesse investire su di lui a lungo termine, voleva trovare fissa dimora per 4 o 5 anni. Così doveva essere nella sfortunata esperienza di Bologna, così è ora alla Spal. Andarsene da Torino gli ha spezzato il cuore, ma dal punto di vista professionale è stata la cosa giusta perché ora gioca in Serie A e non da comparsa.

"Io le mie occasioni le ho avute. Ora, a 28 anni, vedo il calcio in modo diverso da quando ero giovane. Ho una figlia a casa che mi aiuta a tenere i pensieri fuori dalla porta e sono maturato. Fiducia ne ho ancora tanta. Gioco alla Paganese, in C, e al mattino vado al campo ad allenarmi con un obiettivo: voglio risalire in B quest’anno. Sicuro che risalgo, dipende da me e da nessun altro. Mi alleno il doppio di prima perché il calcio è questione di motivazione, più ne hai, più vai avanti. E adesso, finalmente, posso dire “io tifo Toro”, posso sentirmi libero. Libero di guardare le partite ed esultare ai gol. Quelli di Edera, per esempio, uno che ha fatto la trafila delle giovanili e mi fa ripensare al mio passato. Io tifo Toro, io tifo per lui.

"PRECEDENTI PUNTATE