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Le Loro storie, Roberto Stellone: “Il lunedì non riuscivo ad alzarmi dal letto, ma il sorriso non l’ho perso”
Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
Aria da duro, spirito da anima della festa. L’ironia ha accompagnato Roberto Stellone nei momenti di festa e in quelli meno buoni. Da calciatore e da tecnico, da padre e da uomo, uno sguardo alla storia di un bomber che ha sempre reagito con il sorriso.
Non sono uno che parla molto volentieri alla stampa. Con gli amici invece non sto mai zitto, scherzo sempre. Anche con mio figlio faccio cose che mio padre non avrebbe mai fatto con me. Noi viviamo a due passi dalla spiaggia e ora che è inverno ogni tanto mi vesto solo col costume e gli dico «papà esce, va a fare il bagno a mare». Lui mi guarda con quella faccia come per intendere «ma che stai a fa? ». Io voglio vedere la sua reazione, apro la porta ed esco. Non tutto può essere uno scherzo, perché ci sono dei valori da trasmettere, però se vengono insegnati nella maniera giusta vengono appresi più in fretta.
Per carattere sono sempre stato così anche da giocatore, pronto alla battuta con i compagni e con il mister. La notte prima del ritorno con il Mantova fu il caos. Era partito tutto qualche giorno prima quando avevamo iniziato a tirarci degli schiaffetti nei corridoi dell’hotel. Arrivammo alle risse organizzate e agli agguati con le clave di plastica, ci andò di mezzo anche De Biasi. Quella notte stavamo facendo casino, venne su, ma capimmo subito che non era serio, voleva anche lui scaricare un po’ di adrenalina. S’è ritrovato in camera mia, di Jimmy Fontana e di Davide Nicola (un vero pazzo…). «La finiamo con sto casino? Domani c’è la partita…». Lo buttammo sul letto e lo gonfiammo di mazzate.
Al Toro di gente così ne ho incontrata parecchia, da Jimmy a Matteo Sereni, Muzzi, Balestri, Gasbarroni, perfino Simone Barone. Aveva l’aria del tranquillone, invece sotto sotto era uno di quelli che aizzava, con la battutina pronta.
L’ironia mi è stata utile anche nei momenti difficili. Mi fanno ridere quelli che dicono «non sono riuscito a sfondare nel calcio perché mi sono rotto il menisco». Io a vent’anni mi sono rotto il tendine d’Achille, a 21 mi hanno dovuto ri-operare. Ero in ritiro con il Parma di Thuram, Cannavaro, Crespo. Persi la Nazionale. A 22 il crociato, poi di nuovo sotto i ferri per pulizia della cartilagine. La spalla, la peritonite, la pubalgia. Penso di aver avuto un po’ meno dal calcio rispetto alle qualità che avevo a causa di otto infortuni gravi che mi tennero fermo a botte di un anno, un anno e mezzo. Ma non mi è mai scesa nemmeno una lacrima, dopo ogni colpo basso ero pronto a ricominciare.
Però mi sono portato dietro le conseguenze per tutta la carriera. La domenica giocavo sotto anti-dolorifici e Toradol, il lunedì non mi alzavo dal letto. Ginocchio gonfio, tendini che urlavano. Dovevo gestire le forze per arrivare alla domenica successiva, per cui passavo per quello che non aveva voglia di allenarsi. La verità è che allora (ma anche oggi) se mi misuravo la circonferenza delle due cosce, tra sinistra e destra c’erano 5 cm di differenza. Corri male, cammini male, sforzi muscoli e articolazioni per compensare. Nella mia carriera difficilmente sono stato al 100%. Ma volevo giocare sempre per cui la domenica andavo oltre le mie possibilità, facendo cose che in settimana non allenavo e quindi ne risentivo. Come quando uno gioca a calcetto con gli amici una volta all’anno, poi ha dolori per una settimana. Io lunedì, martedì e mercoledì dovevo essere gestito. Qualcuno che mi ha capito, a livello di staff medici e allenatori, c’è stato e le annate infatti sono state buone, altri si fermavano all’apparenza. Se capitasse la stessa cosa a mio figlio, gli consiglierei di restare fermo tre mesi in più e rientrare solo quando si sente al 100%, senza dover poi avere paura di forzare.
Da allenatore cerco comunque di sdrammatizzare. Non puoi cambiare un carattere come il mio, anche se l’età e il ruolo qualcosa modificano. Ma ci sono alcuni comportamenti che non tolleravo da atleta e cerco di evitare. Quando giocavo mi è capitato spesso di avere allenatori che dopo una sconfitta manco ti salutavano. Ti guardavano con gli occhi di uno a cui sei appena andato addosso con la macchina. Lui con l’auto nuova fiammante, andava di fretta e tu lo hai centrato in pieno. Quello sguardo lì, come se ai giocatori non gliene fregasse nulla del risultato e fossero gli unici responsabili. Ho visto certe facce in spogliatoio... Dopo una partita io, da allenatore, non vorrei nessun dirigente in spogliatoio, perché devo trasmettere quello che sento ai giocatori liberamente. Do sempre la mano a tutti dopo una sconfitta ed è una gestione che funziona. Che non vuol dire che vada bene tutto, perché poi mi rivedo la partita e il lunedì analizziamo insieme gli errori, quelli tattici, quelli di pigrizia o di concentrazione.
Non posso scherzare sempre nel mio lavoro, ma a me interessa che nelle due ore dell’allenamento i ragazzi diano tutto, nel resto del tempo non mi interessa cosa fanno. Se vuoi rispetto devi dare rispetto. Se fumo dentro casa, mio figlio fumerà dentro casa. L’allenatore deve dare l’esempio, essere onesto. Se vado in conferenza e dico «domenica li dobbiamo sbranare, attaccheremo in dieci» e poi schiero in 4-5-1 e ai giocatori ordino di stare tutti indietro, è normale che loro pensino che il mister non è molto chiaro. Come quei mister che quando pensavano di farmi giocare la domenica successiva, durante la settimana mi urlavano «grande Roby! », mentre quando avevano già deciso di tenermi fuori mi salutavano con un «buongiorno Stellone».
Finora ho avuto la fortuna di iniziare ad allenare a inizio stagione, mai da subentrante, per cui il primo giorno organizzo sempre una riunione di una ventina di minuti in cui spiego il mio credo tattico e anche quello comportamentale. Io non tollero atteggiamenti negativi quando un giocatore viene sostituito. Non mi piace vedere lanciare bottigliette, dare pugni alla panchina o mancare di salutare il proprio allenatore. A tutti rode il culo quando devono uscire, ma quello che cerco di far capire è che il culo rode anche a chi non gioca e magari entra solo per un quarto d’ora. Il rispetto non è darmi del lei e poi dare un calcio alla bottiglietta, a me non frega nulla se mi dai del lei, preferisco se mi dai del tu, ma ti comporti bene. E il rispetto deve ovviamente essere a due direzioni. Se a ogni errore in campo io mando a quel paese il ragazzo, mi giro verso la tribuna a braccia aperte e urlo «guarda che giocatori che ho», poi vado in sala stampa e mi sfogo perché «gli attaccanti si mangiano i gol», è grave e autorizzo i calciatori a non rispettarmi. Se invece li riprendo con i toni giusti, anche scherzosi, e non vado a sputtanarli in pubblico, allora si crea un rapporto leale.
Ma non c’è una regola. Ancelotti gestisce il gruppo in un modo, Mourinho in un altro, ma entrambi sono dei vincenti. Io, per indole, sono uno che vuole vincere sempre. Se al 90esimo sto pareggiando io inserisco una punta, perché sono convinto che nell’arco delle quaranta partite, qualche volta puoi prendere gol e maledire la tua scelta, ma qualche gol in più lo fai. Per cui magari colleziono qualche pareggio in meno, ma porto a casa qualche punto in più. Una volta in C col Frosinone al 90esimo sul 2-2 ho mandato il portiere a saltare nell’area avversaria. Non è arrivato il miracolo, ma ero pronto alle critiche nel caso in cui avessimo subìto gol. Però poi quelle parole io le tengo a mente e quando vinciamo all’ultimo secondo le tiro fuori. «Avete visto? Chi è che mi criticava?». Sempre col sorriso, ovviamente.
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